Tore Cherchi (presidente della Provincia di Carbonia-Iglesias, ex sindaco di Carbonia e a lungo parlamentare) ha inviato al blog questo lungo ricordo del giornalista Peppino Fiori a dieci anni dalla sua scomparsa. È un piccolo saggio che ripercorre le tappe politiche e professionali di Fiori, un interessantissimo spaccato di ciò che è stata la militanza culturale e politica in anni ormai lontani, ma a cui dovremmo guardare per ricostruire la vita democratica del nostro Paese. Grazie a Tore Cherchi per questo bel regalo che ha fatto ai lettori del blog.
Per chi fosse interessato, comunico inoltre che sabato 4 maggio, a partire dalle 17.30 alla Mediateca del Mediterraneo di Cagliari (via Mameli), verrà presentato il libro “Il coraggio della verità. L’Italia civile di Giuseppe Fiori”, curato da Jacopo Onnis ed edito dalla Cuec. Chi scrive coordinerà, insieme all’autore, l’incontro, a cui parteciperanno anche gli storici Manlio Brigaglia e Giovanni De Luna, e il regista Salvatore Mereu. Brani del libro saranno letti dall’attrice Cristina Maccioni.
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Nella memoria, mia e di milioni di persone, Peppino Fiori è stato impresso dal Tg2, edizione domenicale, ore 13, anni 1976 e successivi. Intendiamoci, ci era ben noto Peppino Fiori, giornalista d’inchiesta, Tv7, libri di valore e risonanza. Però quello del Tg2 domenicale imponeva un rito. Ora di pranzo, tavola imbandita, televisore ben piazzato, Fiori compariva in chiusura del tg, in tre/quattro minuti ti raccontava il risvolto nascosto di un fatto, guardandoti in faccia. Chiuso il tg, si apriva “L’altra domenica” di Renzo Arbore, grande della raitivù d’intrattenimento.
Quattro anni fa, Arbore venne a Carbonia, lui e la sua orchestra. Persona amabile e colta, Renzo Arbore. E alla mano. Lo ringraziai per le ore piacevoli di tanti anni. Si parlò immancabilmente dell’accoppiata domenicale in successione, Fiori e Arbore, io con l’orgoglio per il compatriota sardo. Arbore ricordò che all’inizio del suo programma evocava sul faceto il “a chi giova?” talvolta posto, ma sul serio, da Peppino Fiori agli ascoltatori. Peppino usava parlare e incalzare con domande lo spettatore, lo tirava fuori dalla passività coinvolgendolo e spingendolo ad interrogarsi sulle ragioni di una data situazione italiana. Provocare il pensiero era un suo obiettivo. E vi riusciva.
Gli studiosi e gli storici della comunicazione segnano il 1976, Rete 2, Tg2 di Barbato e Fiori, inchiesta e intrattenimento pazzesco mai banale, come pietra miliare dell’innovazione in televisione, per linguaggio, verità e apertura. Innovazione in una Italia che era cambiata nel costume, nella cultura, nei diritti, nel pluralismo politico, una primavera che già si immergeva negli anni di piombo. I giovani possono rileggere “Parole in tv”, libro introdotto da Corrado Stajano, in cui Fiori ha raccolto gli interventi domenicali. La lettura vale l’impegno per piacevolezza e per conoscenza di una fase importante dell’evoluzione della nostra storia.
Fiori vicedirettore del Tg2 era più che cinquantenne. Nato a Silanus nel 1923, tappa di uno degli spostamenti della famiglia per ragioni di servizio del padre Antonio, Maresciallo dell’arma dei Carabinieri. Peppino nome vero e registrato, italianizzato in Giuseppe dal direttore di La Stampa, Giulio De Benedetti, intollerante di diminutivi. Ginnasio a Cagliari, luogo sempre nel cuore. Bombardamenti e studio, laurea nel 1945, anni 22. Tesi sul cinema come lui stesso racconta in un saggio a introduzione dei volumi sul “Cinema a Cagliari”, scritti da Giuseppe Podda, amico d’intelligenza e di cultura. Altro giornalista di vaglia Giuseppe Podda, prodigo di insegnamenti verso tanti della mia generazione. Attaccato a Cagliari al punto da rifiutare ogni proposta di trasferimento alla redazione romana del suo giornale L’Unità, tappa indispensabile per più ampie esperienze.
Varcò invece il Tirreno, Peppino Fiori, verso la Rai nazionale, Roma, in residenza stabile con la sua famiglia dal 1970. Alle spalle oltre venti anni di professione, giornalista all’Unione Sarda, alla redazione sarda della Rai, libri inchiesta, biografia di Gramsci: un caso politico-culturale, e tanto altro.
“La società del malessere”, libro del 1968, mi fece conoscere Peppino scrittore e indagatore della società sarda. Lessi più tardi l’altro suo libro inchiesta, “Baroni in laguna”. Nella “Società del malessere” i protagonisti raccontano al registratore. Quando questo non è possibile, Fiori fa parlare le persone attraverso i fatti e ogni tanto trae conclusione. Libro di analisi della società sarda, importante nella nostra formazione culturale.
Sono gli anni dei sequestri di persona e di violenza ma anche di movimenti generosi, democratici e di massa nelle zone interne, e di circoli terzomondisti. Mesina che evade dal carcere di San Sebastiano, con Miguel Atienza, e lascia Sassari con un taxi passando davanti al palazzo di giustizia, colpisce l’immaginario collettivo. Gli studenti – e non solo – tifano. Fiori lo smitizza raccontandone la parabola, né astio né indulgente comprensione. Il finale è la cruda cronaca della consegna alle forze dell’ordine con classica coreografia di alti gradi accorsi a celebrare. Giù il sipario su una storia che resta di banditismo.
Non confuse mai il banditismo con la lotta al colonialismo Salvatore Muravera, chiamato Bore. Racconta al registratore il pezzo di vita passata, quanto fosse difficile andare a scuola in quegli anni. Divenne sindaco del suo paese. Siamo ancora ad Orgosolo. Ne ricordo la sagoma minuta capeggiare le popolazioni delle zone interne qualche anno dopo l’intervista a Fiori, Cagliari, largo Carlo Felice, gigantesca manifestazione di massa per lo sviluppo, anno 1974. Era fiero che potesse cantarsi nel corteo che Orgosolo non era più conosciuta “in tottue pro terra ‘e bandidos”.
Avevano guadagnato attenzione e ammirazione con la lotta civile e pacifica, contro l’occupazione militare di Pratobello, Orgosolo, Bore Muravera e Peppino Marotto, altro narrante nel libro di Fiori. Lo chiamavamo Tziu Peppinu, anzoneddaru da bambino, da giovane in carcere, vicende degli anni cinquanta, sempre negate. Rientrato al paese, visse in pace, facendo il suo lavoro e consigliando il bene e il giusto, autodidatta per tenace volontà di cultura. Fu ucciso nel mattino del 29 dicembre 2007 in pieno centro ad Orgosolo. Era molto benvoluto. Eppure nessuno vide i colpevoli e nessuno nulla sentì.
Penso a Tziu Peppinu e rileggo il commento di Giuseppe Fiori alla cronaca dei funerali di due agenti della polizia uccisi ad un posto di blocco, maggio ’67, località Sa Ferula, strada provinciale per Bitti. Uccisi da Giovanni Pirari, studente ventenne, “rampollo di famiglia nuorese influente”. Ai funerali, il presidente della Repubblica, Saragat. “Nuoro sprofondò nel silenzio, ed era costernazione genuina” scrive Fiori. “Eppure case amiche, prosegue, ospitavano il bandito”, nessuna collaborazione alle indagini né mercenaria (leggi: riscossione della taglia) né per civismo. “Non solidarietà, astensione. Tutto uno strato di borghesia benpensante sceglie di vivere nella legge, meno per la legge”, conclude amaro Fiori. Ripensi a Peppino Marotto e a don Muntoni e alle parole di Fiori del 1968, quarant’anni son passati, e vedi il tempo correre nella immutabilità di costumi sardi, almeno di taluni, non i migliori.
Peppino Marotto scriveva poesie, rime genuine e semplici. Versi alla natura e versi politicamente impegnati. Nelle piazze sarde, i cori a tenore ne cantavano di dedicati ad Antonio Gramsci, “mortu chena piedade / …. / ma non morit sa sua eredidade”.
Fiori a Gramsci ha dedicato tre libri e molti interventi, ogni tanto mi imbatto in qualche suo scritto, novità per me.
Nel 1966 pubblica la prima edizione della “Vita di Antonio Gramsci”, da Laterza, non da Einaudi. Inaugura il suo genere, la storia attraverso le biografie, che gli varrà un posto importante tra gli autori del secondo Novecento italiano.
Il libro ci restituisce di Gramsci, “un ritratto a figura intera, con i tuffi del sangue e della carne” per dirla con le stesse parole di Fiori. Il libro fu un caso di successo editoriale, traduzione in dodici lingue, arabo e cinese e giapponese compresi. E anche un caso di polemiche politiche. Fiori aveva documentato un Gramsci amareggiato nel carcere di Turi, per iniziative del partito a dir poco imprudenti per il suo futuro, e in dissenso con la svolta degli anni ’30 dell’Internazionale comunista, abbandono della linea del fronte largo di lotta contro il fascismo, pretesa di autosufficienza dei comunisti con settarismo spinto sino ad affibbiare l’accusa di “social fascismo” alla sinistra non comunista.
Togliatti e altri dirigenti di primo piano condivisero quella linea. Altri no e furono espulsi dalla direzione. Gramsci in carcere considerava sbagliata quella linea, in sintonia con i compagni espulsi. Fiori ha scritto che la sua biografia di Gramsci è “un’opera trasgressiva. Di che? Della vecchia ortodossia”. Quella che non ammetteva la possibilità di strappi e contraddizioni, immaginiamoci lacerazioni fra Gramsci e Togliatti in un passaggio storico importante.
Il dibattito fu ampio. A Fiori si riconosceva il merito di una biografia completa di Gramsci. Quanto ai tratti culturali e politici di Gramsci, beh, quella un’altra cosa. Tra gli altri, promosse un dibattito a confutazione di Fiori “Rinascita sarda”, direttore Umberto Cardia, uomo peraltro di spirito aperto e colto. Scrivono lo stesso Cardia, Pietro Secchia, Alfonso Leonetti, uno degli espulsi, altri protagonisti diretti e studiosi del movimento comunista. Interviene sul periodico ancora Peppino Fiori, cortese e fermo, ribadisce, documenti alla mano, la solidità del suo lavoro. Il dibattito è raccolto in un volume pubblicato dalla sarda Edes.
Il tempo e ulteriori ricerche contribuiranno ad affermare la verità storica, quella già indagata da Fiori. Dieci anni dopo, la biografia di Gramsci sarà distribuita in centinaia di miglia di copie come inserto dell’Unità. Alle ricerche su Gramsci, Fiori contribuisce ancora con il saggio “Gramsci, Togliatti, Stalin”, pubblicato da Laterza nel 1991. Da Einaudi pubblicherà nel 1994 la “Vita attraverso le lettere”, libro scritto con l’intenzione di accostare a Gramsci, “i giovani poco informati dalla scuola”. L’impianto del libro è basato sull’idea (nuova) di attingere al blocco carcerario delle lettere e in pari tempo al blocco giovanile.
I lavori di Fiori su Gramsci, avversati dalla vecchia ortodossia, hanno fatto in realtà, un grande servizio ai comunisti italiani. Hanno infatti reso più evidente e più feconda l’influenza del teorico dell’egemonia, del socialismo basato sul consenso, nella costruzione del Partito Comunista Italiano. E che la diversità del PCI, rispetto alla generalità dei partiti fratelli, e il consenso di massa poggiavano su un pensiero non dogmatico, quello di Antonio Gramsci.
Nel 1993, Fiori era tornato al romanzo, suo genere di esordio. Da Einaudi, pubblica “Uomini ex”, sottotitolo “lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani”. Quattrocentossessantasei partigiani comunisti, i più emiliani o milanesi, si rifugiarono in Cecoslovacchia per evitare la prigione in Italia, per condanne, molte politicamente ispirate, per controversi fatti seguiti alla caduta del fascismo nell’emiliano triangolo rosso o a Milano, volante rossa. Romanzo storico, metà cronaca, metà fiction, con attacco iniziale da grande letteratura, cattura l’interesse.
Romanzo con echi di “Buio a Mezzogiorno” di Arthur Koestler, zoomate su opportunismo e nuovi privilegi, diffidenza dei comunisti praghesi verso gli eretici italiani. Eretici non al punto da dubitare sul “primato del socialismo e correggibilità del sistema dal suo interno” (Fiori). Lunghi anni di gelo e poi il disgelo con la primavera di Praga, l’aiuto fraterno con i carri armati per spegnerla e restaurare ancora il gelo. Motiva il titolo, il bilancio esistenziale conclusivo di uno degli italiani protagonisti della storia. Sognava l’uomo nuovo Aristide Baraldi, “Mi ritrovo ad essere soltanto l’uomo ex. Cacciato dal partito (praghese), dunque ex tesserato comunista, cacciato dall’associazione dei giornalisti. Ex giornalista… Fuori dall’associazione della caccia, Ex cacciatore. Ex tutto”. Dunque, uomini ex.
L’Io narrante del romanzo è Antonio Selliti, segretario della Camera del Lavoro di Carbonia, fuoriuscito a Praga, 1948, insieme con il primo sindaco post Liberazione, Renato Mistroni, Renato Manzoni nel romanzo. Di Renato Mistroni, Fiori racconta solo di sfuggita, da lui non aveva cavato molto. Il fatto è che Mistroni non raccontava ad estranei le vicende dei comunisti. A Carbonia gli abbiamo dedicato una piazza. Fosse stato meno riservato, Fiori ne avrebbe fatto un ritratto in pagine di buona letteratura. Ma Mistroni, 12 anni di carcere dal Tribunale speciale fascista, rimase attaccato alle regole sino alla fine.
Nel 1979, elezioni politiche, Fiori è candidato Senatore. Collegio di Cagliari, collegio difficile per la sinistra. Si usava allora fare la campagna elettorale porta a porta in modo serio. Alla classica domanda “chi avete candidato?”, “Peppino Fiori!” si rispondeva, senza ulteriori presentazioni. Funzionava cosi. Facile presentarti con Fiori nelle case e chiedere il voto.
Fu rieletto nelle due successive legislature, collegio di Oristano. Fiori faceva la campagna elettorale con rigore, che si trattasse di incontri al mercato con i cittadini o di parlare in una piccola radio o televisione di provincia, la professionalità era la stessa. Con i giovani (io ne ho avuto beneficio) era prodigo di consigli e di aiuto. Con sua lettera spedita con largo anticipo, chiese di non essere ricandidato alle elezioni del 1992. Continuerà però a fare le campagne elettorali. Ho un ricordo di stupore e ammirazione per l’impegno che profuse da ultimo, nella campagna elettorale del 1996.
Peppino Fiori non era comunista. Potrebbe dirsi un socialista liberale, azionista e autonomista. Si capisce che ama gli ideali di Carlo Rosselli, di Emilio Lussu, di Ernesto Rossi. Non era comunista ma stimava profondamente Enrico Berlinguer; un berlingueriano, così lo considerava anche l’ala migliorista del partito. Di Berlinguer condivideva gli obiettivi essenziali a partire dalla questione morale, intesa come grande questione politica del Paese. Quando il PCI fu sciolto, molto si amareggiò per la diaspora che ne seguì, preoccupato per l’indebolimento della forza più importante della sinistra. “Ci fosse ancora Berlinguer…” diceva, sicuro che lui avrebbe saputo traghettare unito, tutto quel popolo verso un nuovo lido.
Ma torniamo al Senato. Aderisce al Gruppo della Sinistra Indipendente con Giuseppe Branca, Eduardo De Filippo, Ferruccio Parri, Raniero La Valle, Tullio Vinay, e poi Giorgio Strehler, Antonio Giolitti, Guido Rossi, Edoardo Vesentini, eccellenze nei rispettivi campi, personalità da libri di storia. C’era un tempo in cui la sinistra, da incolti odierni accusata di settarismo, usava la sua forza perché il Parlamento e quindi la Repubblica, potessero giovarsi dell’apporto di Personalità di grande valore, cui non si chiedeva né iscrizione al partito, né obbligo di fedeltà. Rispetto a quelle tradizioni culturali e politiche molto è mutato in peggio.
Fiori è componente della Commissione Lavori Pubblici e Comunicazioni, nella sua prima legislatura, della Difesa nelle successive. Sarà sempre nella Commissione di vigilanza sulla Rai. Troppo lunga anche la sola sintesi dell’attività parlamentare. Non dimentica la Sardegna, conosce l’importanza degli archivi per gli studiosi, presentando e portando all’approvazione la legge, “Norme per la consultabilità degli atti del tribunale speciale per la difesa dello Stato (1990)”, legge che semplifica sostanzialmente l’accesso a questi archivi. Sono cofirmatari della legge – sentite i nomi – Norberto Bobbio, Gaetano Arfè, Leopoldo Elia, Paolo Volponi, De Rosa, Arrigo Boldrini.
Si occupa ovviamente di comunicazione, firmando a nome della Sinistra Indipendente la proposta di legge sulla regolamentazione del sistema radiotelevisivo italiano.
In Parlamento si batte contro la concentrazione. Battaglia importante quella del 1984. In una sola mano erano state concentrate tre reti private. Nulla di comparabile all’estero. Berlusconi trasmetteva su base nazionale, aggirando, con efficace espediente tecnico, la legge che dispone la trasmissione solo in ambito locale. I pretori impongono il rispetto della legge. Segue un decreto legge ad hoc per Berlusconi, di Bettino Craxi. Il decreto legge viene impallinato a voto segreto. Lo si reitera, questa volta con l’accortezza di concessioni anche alla Rai e anche al Partito Comunista con parte della terza rete. L’opposizione è depotenziata. La sinistra indipendente resterà sola nell’ostruzionismo parlamentare. Molta amarezza di Fiori. Il decreto legge è convertito. “Una cantonata solenne, una sottovalutazione grave dei guasti irreversibili che la legittimazione del monopolio produrrà”, scriverà Fiori.
La cantonata era questa: il decreto prometteva una legge per la regolamentazione entro sei mesi e intanto tutto restava immutato. Già ma perché non farla subito, la regolamentazione? E perché tenere in piedi una situazione illegittima? Con “il senno del prima” – come diceva Fiori – la previsione della Sinistra Indipendente su nessuna regolamentazione si avverò. Sbagliarono semmai per difetto. Venne la legge Mammì, anno 1990, e fu vittoria a 360 gradi per la Fininvest.
Intervenendo in discussione generale in Aula, Peppino Fiori andava “al midollo” – sua l’espressione – della questione. “Quel che marca questa legge è la perpetuazione della posizione dominante della Fininvest, sia nel possesso delle reti, tre, sia nella raccolta pubblicitaria” denunciò. Contro lo scempio vanamente si dimisero ben cinque ministri. Il 6 agosto 1990, voto finale al Senato. La Corte nel 1994, dichiarerà incostituzionale precisamente, il comma della legge eretto a perpetuazione della posizione dominante di Fininvest, cioè di Silvio Berlusconi.
Su Berlusconi ha scritto il libro “Il venditore”, edito da Garzanti, 1995. Biografia a trecentosessanta gradi. Approccio quello consueto dello studioso serio, documentazione precisa di ogni riga. Andava professionalmente soddisfatto di non aver ricevuto querele dall’interessato, libro inquerelabile dunque, riscontro esplicito di veridicità dei fatti da parte di chi ha stuoli di avvocati in servizio permanente effettivo.
Il libro fu osteggiato nell’accesso alla presentazione nei grandi mezzi di informazione. Molti acquisti a scopo limitazione circolazione notizie. Nondimeno nel tempo, ha viaggiato verso le centomila copie vendute. Libro ben attuale a vent’anni dalla prima edizione. Ci sono ritornato sopra. Lettura utile per chi voglia comprendere l’Italia di oggi. Un esempio per tutti. Il debito pubblico, problema gigantesco. Quando si forma? Negli anni del CAF, il Craxi–Andreotti–Forlani. Peppino Fiori, a riepilogo di quegli anni nel capitolo finale de “Il venditore”, cede la parola a Antonio Martino, ministro in un Governo Berlusconi, non molto ben tollerato perché liberal sul serio.
Scrive Martino sul Corriere della Sera, marzo 1995, e Fiori riporta testuale: “Mi sembra incontrovertibile che il disperato dissesto della nostra finanza pubblica debba essere direttamente imputato al periodo 1980-1993, in quei tredici anni abbiamo contratto nuovi debiti per oltre un milione 650 mila miliardi (di lire, circa 850 milardi di euro, nda). Quasi il 90 per cento dell’intero stock del debito è stato il frutto della gestione dissennata di quegli anni”. Cosi l’epitaffio di Antonio Martino su un periodo che vide il più perverso intreccio di pubblico e privato della storia della Repubblica .
Quel periodo si concluse con il crollo della Prima Repubblica, travolta da Tangentopoli. Berlusconi ebbe la capacità di presentarsi come il nuovo. Per illuminare questo passaggio storico, Fiori cede la parola allo storico tedesco Michael Braun: “Soffia nel Paese un vento di sollevazione contro la “nomenklatura” del vecchio regime democristiano-socialista, scrive Braun e prosegue, “Berlusconi non è solo un potente del vecchio regime, potente è diventato grazie a questo regime”.
Fiori sintetizza la transizione così: “Dire leninianamente che il berlusconismo è la fase suprema del craxismo è solo una battuta facile, ma non del tutto incongrua”. Di Craxi, Fiori ha un’opinione netta: non penserà mai che il suo soggiorno ad Hammamet abbia che fare con quello di Pertini a Nizza e che i venti anni comminati ad Ernesto Rossi dal tribunale fascista valgano i 22 anni comminati all’ex primo ministro, da tribunali di una repubblica democratica.
Due anni dopo la biografia di Berlusconi, Fiori pubblica la biografia di Ernesto Rossi, “Una storia italiana”, Einaudi 1997. C’è chi giustappone le due biografie, l’eroe negativo, l’eroe positivo. C’è molto di fondato, soprattutto nella considerazione della cosa pubblica in rapporto agli interessi privati. Ernesto Rossi, entra in carcere nel 1930, ne uscirà nel 1943. Tra un carcere e l’altro, è confinato a Ventotene. Qui scrive con Altiero Spinelli il manifesto che dall’isola di confino prenderà il nome: “Il Manifesto di Ventotene per l’unità statuale dell’Europa, e la definitiva abolizione degli stati nazionali e sovrani”.
Di Ernesto Rossi, Fiori porta in primo piani aspetti meno eclatanti di quello della lotta al fascismo. Si leggano i capitoli sul Rossi manager pubblico. Si capirà che cosa sia lo spirito pubblico nello svolgimento di un servizio. Dopo una breve parentesi come sottosegretario del Governo Parri, Rossi si occupa dell’ARAR, sigla che sta per Azienda Riordino Alienazione Residuati. Sigla arida ma con tanto dentro. I residuati sono quelli della guerra, mezzi, camion, auto, trattori, e attrezzi per un milione e seicentomila tonnellate, valore enorme. Rossi è presidente, l’ing. Valerio e l’ing. De Benedetti ne sono amministratori delegati.
I due vengono dalla società elettrica Edison e dalla Vetrocoke di Marghera. Diverse le visioni. Rossi vuole trasparenza, procedure di evidenza pubblica, vendita per piccoli lotti accessibili alla piccola e media impresa. Valerio e De Benedetti sono per la trattativa privata, vendita in massa, appannaggio sicuro dei soliti “padroni del vapore”. Rossi li costringerà alle dimissioni. Pesta i piedi anche al potente Valerio Valletta, amministratore delegato della Fiat che vede nella vendita dei camion avanzati dalla guerra, un ostacolo agli affari degli Agnelli.
Fiori a conclusione, scrive: “Fatti i conti, l’ARAR non solo ha riossigenato l’economia italiana allo stremo, ma in pari tempo ha procurato al Tesoro – evento eccezionale nella storia degli Enti pubblici italiani – un guadagno consistente”. Rossi replicherà il successo gestendo una parte importante della quota italiana dell’ERP, l’European Recovery Program, il piano Marshall che impostato a dimensione europea, ebbe il merito di rilanciare anche l’ispirazione del Manifesto di Ventotene. Storia esemplare quella di Ernesto Rossi che Fiori con il suo lavoro, risarcisce di un certo oblio nella memoria collettiva.
La serie delle grandi biografie si chiude (1999) con “Casa Rosselli. Vita di Carlo e Nello, Amelia, Marion e Maria”. Il libro è tenacemente desiderato da John Rosselli, figlio di Carlo.
Le biografie comprendono anche “L’anarchico Schirru. Condannato a morte per l’intenzione di uccidere Mussolini”, Mondadori 1983; “Il cavaliere dei Rossomori. Vita di Emilio Lussu”, Einaudi 1985 e la “Vita di Enrico Berlinguer”, Editori Laterza, 1989.
Le biografie scritte da Fiori, che riguardino protagonisti di primo piano o persone comunque esemplari in quei contesti storici, sono riconosciute dagli storici di professione innanzitutto per il loro valore culturale. Non romanzi a sfondo storico, ma meticolosa indagine, lavoro di documentazione, ricostruzione con gli strumenti del mestiere scientifico. Detto più in chiaro, nessuno che voglia scrivere di certi periodi della storia del Novecento italiano, del ruolo delle forze politiche e dei protagonisti da lui studiati, può prescindere dai libri di Peppino Fiori. Dalla consapevolezza dell’importanza culturale di questo lavoro, Peppino Fiori traeva appagamento della fatica fatta.
L’ultimo suo impegno letterario è la ripubblicazione di “Sonetàula”, gennaio 2000. La prima edizione risaliva al 1962. La nuova non è una semplice riedizione. Ne ha tolto 150 pagine. Protagonista Zuanne Malune, chiamato Sonetàula, “più che di uomo, cresciuto figlio di bosco e di pecore”. In una nostra conversazione romana, Peppino diceva di avere fretta di finire il libro. Voleva dedicarlo alla nipotina. Nella nota che apre il libro scrive: “Lo dedicai (il primo Sonetàula) a mia moglie Nandina che non c’è più. La prosegue nostra nipotina Giovanna. A entrambe congiuntamente dedico questa nuova stesura”. Vi è in questa dedica la forza e la serenità della vita che prosegue.
Ho conosciuto un Peppino Fiori sereno nei suoi ultimi anni, immerso nell’affetto della sua famiglia e nella stima di tanti, consapevole di aver fatto la sua parte con rigore, sempre passionale nella reazione alle cose storte.
Quando Peppino scomparve, dieci anni fa, Carlo Azeglio Ciampi scrisse: “Sono profondamente rattristato. Con lui viene a mancare una persona esemplare che seppe, con l’esercizio critico della ragione e con grande passione civile, offrire alla nazione il suo impegno di giornalista, di studioso, di parlamentare”. Cosi lo ricordava un grande presidente della Repubblica e con le sue parole lo vogliamo ricordare oggi come uomo pubblico. Nei sentimenti più privati c’è il nostro affetto per un uomo che abbiamo conosciuto generoso nei sentimenti e nel dono del suo sapere.
Tore Cherchi
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