Strano ma vero: il centrosinistra torna a parlare di cultura. L’appuntamento è per venerdì 15 giugno a Cagliari, a partire dalle ore 17 presso il Caesar’s Hotel di via Darwin. “La Cultura non dà da mangiare: ne vogliamo parlare?” è il titolo dell’iniziativa organizzata da Rossomori, Sardegna Democratica, Italia dei Valori, La Sinistra, Circolo E. Lussu di Sel, e a cui parteciperanno Antioco Usala (portavoce Cosass), Pietro Maurandi (La Sinistra – Sel), Yuri Marcialis (Partito Democratico), Laura Stocchino (Federazione della Sinistra), Salvatore Melis (Segretario Nazionale Rossomori), Salvatore Lai (Italia dei Valori), Maria Antonietta Mongiu (Sardegna Democratica). Modererà l’incontro (strano ma vero) Vito Biolchini.
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Tralasciamo i motivi per i quali storicamente il centrosinistra ha fatto (o dovrebbe fare) della cultura un ambito privilegiato di intervento. Ne suggerisco uno ulteriore: oggi la cultura riflette meglio di altri settori la complessità dei nostri tempi. Ci governa bene la cultura ha dunque maggiori probabilità di riuscire a governare bene tutto il resto. Con questo non voglio dire che la sanità, il lavoro, l’industria, i servizi sociali siano settori semplici da amministrare. Ma la cultura attraversa trasversalmente la società e si proietta maggiormente nel futuro. Peccato che in Sardegna questo settore faccia i conti con due limiti oggettivi che altri settori non conoscono.
Il primo: l’opinione pubblica accetta di buon grado gli investimenti in tutti gli ambiti tranne che in quello della cultura, soprattutto in una regione sottosviluppata come la nostra.
Il secondo: i politici sardi provengono dal mondo della sanità, dell’impresa, delle professioni, del sindacato e dell’università, ma nessuno viene dal mondo della cultura. Sì, ho detto università, avete capito bene. L’esperienza passata parla a mio favore: gli universitari non capiscono la cultura, non sanno come funziona. Essenzialmente perché in Sardegna la cultura non è prodotta nelle università, ma fuori di esse. E sapete perché? Perché non esiste cultura se dietro non c’è un’impresa culturale a gestirla. E i docenti universitari cosa sia un’impresa non lo sanno.
Quindi oggi in Sardegna gli operatori culturali non hanno un politico di riferimento (e tantomeno un partito) che conosca a fondo le loro problematiche. Non c’è in Consiglio regionale e non c’è nemmeno in Consiglio comunale a Cagliari nessuno che possa aiutarli. “Ma allora come si è fatto finora?”, vi chiederete voi. Semplice: affidandosi alla sensibilità politica di alcuni operatori che in questi anni hanno orientato (nel bene e nel male) le scelte della politica.
Questo secondo me è il punto dal quale bisogna partire: la politica non conosce che cultura si produce e si consuma in Sardegna. Non lo sa anche perché nessuno ha mai studiato il sistema con strumenti efficaci. I dati a disposizione sono pochi e poco raffinati, ma ci dicono che gli investimenti sono stati poderosi.
Volete qualche cifra? Nel sette anni tra il 2005 e il 2011 la Regione ha stanziato per i gruppi professionali di teatro, musica e danza quasi 71 milioni di euro! A questa cifra vanno aggiunti i finanziamenti per il Teatro Lirico di Cagliari (nove milioni all’anno circa), quelli per il cinema, più quelli stanziati dall’assessorato al Turismo per eventi di richiamo, i trasferimenti alle province con la legge 9, i finanziamenti ministeriali, gli interventi dei singoli Comuni, più le risorse erogate dalla Presidenza della Regione a sua discrezione.
Decine e decine di milioni di euro spesi: ma con quali ricadute, con quali prospettive? Chi fissa gli obiettivi e controlla che vengano perseguiti? Di fatto, nessuno. Per questo motivo serve un nuovo patto tra la politica e la cultura. Qualcuno deve rinunciare a qualcosa e ma anche offrire qualcosa di più e di nuovo.
Cosa può fare la politica? Innanzitutto, prendere atto della sua impreparazione, e dunque studiare. Poi analizzare il settore con strumenti seri, affinché ogni intervento sia sostenuto da dati oggettivi. Poi prendere atto che la crisi è terribile, e che se non si ha la forza di operare una riforma organica del settore, intanto è meglio metterlo in sicurezza con misure mirate soprattutto a salvaguardare i posti di lavoro. Inoltre mettersi a disposizione degli operatori senza avere la presunzione di dire loro quello che devono fare, ma soltanto pretendendo un rispetto delle regole della buona gestione dell’impresa.
E le imprese culturali cosa possono fare? Intanto devono prendere atto del fatto che un cambiamento radicale è in corso, ed è assolutamente inevitabile. Poi devono sviluppare meglio le loro capacità gestionali. E poi devono avere più coraggio e rassegnarsi ad abbandonare le rendite di posizione.
L’argomento è ampio e abbozzo qui solo alcuni spunti di riflessione per spiegare che cultura e politica devono riprendere a dialogare se entrambe vogliono avere un futuro.
Il centrosinistra che riprende a parlare di cultura rappresenta dunque una buona notizia. Ma l’obiettivo non può essere banalmente la preparazione di un programma da stilare in vista delle prossime elezioni regionali. Il centrosinistra da un anno governa Cagliari ed è questo il suo vero laboratorio.
Il capoluogo deve essere lo spazio ideale dove mettere a punto le nuove strategie di intervento, dove elaborare e mettere in pratica un modello che poi potrà essere proposto al resto dell’isola.
Oggi questo la Giunta Zedda e i partiti che la sostengono lo stanno facendo? La cultura a Cagliari viene governata diversamente rispetto al passato? E con quali obiettivi concreti? In questo primo anno di amministrazione cosa si è fatto?
Cagliari è il banco di prova del centrosinistra che si candida a governare la Regione e la cultura è un settore importantissimo in una città ormai priva di ambiti produttivi tradizionali e che deve confrontarsi con la sfida dell’intangibile e della società della conoscenza.
La questione per il centrosinistra è cruciale. Perché gli artisti e gli operatori culturali furono i primi a sostenere Renato Soru nella sua incredibile cavalcata verso la guida della Regione, ma furono anche i primi ad abbandonarlo. E a Cagliari gli operatori culturali sono soddisfatti delle scelte operate dall’amministrazione di centrosinistra?
Egemonia culturale,la parola magica è tutta qui, se non si fa questo percorso la cultura rimane nelle mani di pochi.
Gentile Deliperi,
«a mio parere, non necessariamente la “cultura” e il “bene culturale” devono “produrre reddito”. Tuvixeddu va tutelato perchè “è Tuvixeddu”, cioè un “bene culturale”, a prescindere dall’eventuale reddito che ne può derivare»
Esatto, proprio ciò che affermo. Per questo propongo di smettere l’uso di «bene culturale». Tuvixeddu è un frammento di paesaggio urbano; le statue di Cabras sono reperti archeologici (o, al limite, se ci si mette d’accordo, un’opera d’arte), etc. etc.
Non è solo materia lessicale ma semantica. Così la piantiamo con i «motori di sviluppo»!
Per Todde, mi pare di aver commentato sul Vs blog (e, detto tra di noi, lei ha davvero ragione da vendere!!).
Cordialmente,
Cari amici, nel nostro caso è cultura innanzitutto tutto ciò di cui si occupa… l’assessorato alla Cultura! E’ panem? E’ circences? E’ quello che è, che ci piaccia o no. E’ sicuramente spettacolo (teatro, musica, danza), attività culturali di vario genere portate avanti da gruppi e associazioni. Il professor Campus ha capito benissimo il mio pensiero e lo precisa quando distingue tra università e universitari. E’ vero che l’università produce cultura, ma non quella di cui si occupano gli assessorati alla cultura! Infatti gli assessori alla cultura provenienti dall’università non sono mai stati più bravi degli altri, anzi! Le leggi regionali per lo spettacolo e il cinema le hanno fatte due universitarie e sono, a detta di tutti, inservibili.
Per governare la cultura oggi servono nuove specifiche competenze (iniziano ad esserci in diverse università cattedre di economia dello spettacolo e della cultura), ancora praticamente sconosciute dalle nostre parti (e i lavori del Laboratorio 5 ce le hanno fatto capire molto chiaramente). Competenze che un docente universitario di qualunque materia e che magari è anche un fine intellettuale, non ha.
Gentile Biolchini,
«[…] è cultura innanzitutto tutto ciò di cui si occupa… l’assessorato alla Cultura!»
Esatto, esattamente ciò che dico (da tempo). Lei collabora ad un equivoco (e non credo che gliene possa essere fatta una colpa, ci mancherebbe). Uno dei tanti (equivoci).
All’interno dell’equivoco, lei confonde «cultura d’impresa» e «cultura industriale» (due cose del tutto diverse).
Nella seconda, lei dà per scontato che l’Assessorato alla cultura debba essere il motore della «cultura d’impresa»! (Guardi, lo dico senza mezzi termini: che debba sovvenzionale lo spettacolo). Ne deriva che «far funzionare la cultura» nella sua accezione, significa spendere i soldi pubblici in modo che emergano coloro che dimostrano (immagino in base ad un disciplinare condiviso, tutto da decidere) di saper far meglio.
Ragion per cui, si ritroverà Mongiu che plaude al Betile (perché le statue di Cabras devono creare sviluppo, sic!) e, come dice lei, «[…] la cultura è un settore importantissimo in una città ormai priva di ambiti produttivi tradizionali e che deve confrontarsi con la sfida dell’intangibile e della società della conoscenza.»
Un discorso la cui coerenza interna rasenta il sublime di Muledda e la sua «arcaicità moderna»!
Tanto per esser chiari, lei propone l’«intangibile» (cioè il contributo pubblico, poche storie, se ,come dice lei, cultura è quella roba dell’assessorato) come motore innovativo di sviluppo!
Tralascio la «conoscenza» per non essere eccessivo.
Cordialmente,
Sento un allegro scampanio: “…Dams, Dams, Dams…”.
Per chi suona la campana?
Temo, caro Biolk, che abbia introdotto una visione un pò particolare del termine “cultura”.
Rifuggendo, per ovvi motivi, dal rischio di mettermi nella scia di chi diceva “quando sento la parola cultura la mia mano corre alla pistola…”, mi sento però piuttosto toccato – da ex universitario – da un’ affermazione che releghi reciprocamente l’ambiente dell’università e quello della cultura, solo “perché non esiste cultura se dietro non c’è un’impresa culturale a gestirla”.
Intanto, qualcuno mi dovrebbe spiegare perchè Immanuel Kant debba considerarsi culturalmente inesistente, essendo stato – se lo è stato, come sembrerebbe a prima vista – imprenditorialmente disimpegnato; in secondo luogo, mi chiedo che cosa sia, in ultima istanza, l’Università, se non la principale impresa culturale di ogni Nazione, o anche – più semplicisticamente – di ogni Paese, inteso come organismo istituzionalmente costituito e complesso.
Vero è che Biolk non parla di Università, ma di Universitari, dando per scontati – sembrerebbe – non il ruolo potenzialmente imprenditoriale della prima, quanto la capacità di interpretarlo da parte dei secondi; in estrema sintesi, un paradosso, del quale gli sono grato proprio perchè offensivo.
Il paradosso (parà ten doxan) ha infatti proprio il compito di rendere percettibile una possibile innovazione concettuale: la rottura del sistema delle attese rende in effetti l’nformazione emergente e forte, come una pappina sulla nuca di uno scolaro disattento.
Qui, l’informazione proposta da Biolk è:
– l’Università sarda (tramite gli Universitari) non è capace di interpretare il suo compito d’istituto, cioè fare cultura e impresa;
– per fortuna (?), in Sardegna, la cultura la fanno altri;
– questi altri sono le “imprese culturali”, non meglio identificate;
– a questi “altri” deve essere affidato il compito di governare, giacchè sanno coniugare – ontologicamente, sembra – cultura e impresa, e quindi – in estrema sintesi – la complessità della moderna azione di governo.
Con molta franchezza, caro Biolk, questa suggestiva visione mi sembra piuttosto limitata dalla mancata (forse per mia carenza) condivisione (fra Lei e me) dei termini “cultura” e “operatori culturali”: personalmente, infatti, mi sono sempre considerato come un addetto culturale “economico”; quanto all’impresa, c’è quella addetta alla produzione di “panem”, e quella addetta alla produzione di “circenses”, con un’ampia gamma di sfumature intermedie.
Ma, come si suol dire: “dal genio alla pazzia il passo è breve”; perciò: parliamone.
Grazie
Gentile Campus,
«[…]questa suggestiva visione mi sembra piuttosto limitata dalla mancata (forse per mia carenza) condivisione (fra Lei e me) dei termini “cultura” e “operatori culturali” […]»
condivido! Non per nulla ho scritto che questo è uno dei maggiori equivoci della «cultura» in Sardegna, quindi una carenza che non riguarda solo Biolchini, peraltro molto volenteroso.
Guardi che i guai non arrivano dai Biolchini, ma dai Mongiu, dai Maninchedda (tanto per citare quelli di cui parliamo spesso da queste parti) ed in genere da coloro che «fanno cultura» nelle sedi istituzionalmente preposte. Avremo pure il diritto di prendercela con Sergio Frau che rompe le palle presso l’UNESCO sfruttando la potenza politica del giornale per cui scrive (e allora vediamo Lilliu che commenta il libro su Atlantide) per non scavare S’Urachi di Milis perché (a suo dire) testimonianza dello tsunami che distrusse Atlantide, ma per converso c’è Maninchedda che vorrebbe dedicare uno spazio sul Bollettino di Studi Sardi alla scrittura nuragica di Sanna (e perché non all’oroscopo?).
Il cortocircuito non parte dai Biolchini che inciampano sulla «cultura» (ci sarebbe da stupirsi del contrario) ma da chi «fa cultura» nelle sedi dove certi errori dovrebbero essere evitati o, se commessi, immediatamente stigmatizzati. Noi siamo quelli di NUR-AT, si ricorda?
Cordialmente,
Nel caso non si avesse memoria… 😀
http://www.urn-indipendentzia.com/URN/URN%20Sardinnya%20-%20Sa%20Natzione-NURAT.pdf
Inutile Caro amico mio SEI UN MITO. Eheheh incazzati di piu’ e ci stupiremo sempre meno.
caro Vito, ora il centro-sinistra e il centro-destra, uniti verso la mèta, cercano di realizzare un bel kombinat sovietico per gestire i beni culturali (vds. http://gruppodinterventogiuridicoweb.wordpress.com/2012/05/28/il-grande-fratello-dei-beni-culturali-in-sardegna/).
Nulla deve sfuggirgli, nessuna risorsa a chi non è “inquadrato”.
Questo sembra il futuro della “cultura” in Sardegna.
Non ci sono più le risorse di un tempo, gestite con criteri molto discutibili. Ora le poche risorse andranno solo a chi è “nel sistema”.
Se ne parla troppo poco, non pensi?
Stefano Deliperi
Gentile Deliperi,
condividere la preoccupazione per il «kombinat» (complimenti per la metafora) è facile (e sacrosanto). Tuttavia il problema risiede in un errore di fondo, quello del «bene culturale»! E in questo, purtroppo, destra e sinistra commettono lo stesso errore, pur con differenti sfumature sulle modalità di intervento e amministrazione della cosa pubblica.
Tanto per fare un esempio, definire «bene» un luogo come Tuvixeddu è strumentale alla conseguenza logica che debba «fruttare», così che poi, assegnato questo ruolo, ci si divida (forse) tra destra e sinistra sulle diverse visioni del «come». In questo, Marcello Madau (e il Manifesto Sardo, non per la prima volta, così come la sinistra tutta) commette un errore di fondo: se Tuvixeddu è un «bene», ci si dividerà su come farlo rendere, ma in ogni caso ci si aspetterà che lo faccia, con due bizzarre conseguenze.
La prima, che poiché Tuvixeddu (come qualunque altra parte di paesaggio urbano) non potrà mai costituire una fonte di reddito, sarà destinata ad essere considerata un «bene infruttuoso»;
La seconda, che qualunque tipo di approccio (privatistico o pubblico) potrà essere impugnato dalla controparte politica come esempio di cattiva gestione.
Naturalmente sfugge che Tuvixeddu non è un «bene», è un diritto, e i diritti non sono gratuiti e si pagano in funzione di quanto vengano considerati importanti.
O ci si riappropria del senso profondo (sì, «culturale») di Tuvixeddu (scelto come metafora del tema di cui parliamo) e ci si convince che non è un «bene» da amministrare così da trainare sviluppo (questa è una pia illusione “alla Report”, o meglio una colossale sciocchezza) oppure andremo avanti sull’equivoco che «cultura» sia divisione di pani e pesci (leggi contributi pubblici) da attuare con modalità che varieranno in funzione del colore dell’amministrazione del momento e delle (ovvie) amicizie.
Il risultato? Si legga le sconcertanti sciocchezze asperse da Mongiu sul sito di Sardegna Democratica (i «Giganti in cassa integrazione»!): questo davvero un esempio della profonda crisi culturale isolana, altro che kombinat!
Risponderei anche a Biolchini, perché il suo post mi ha fatto venire i brividi (ad esempio per la noncuranza con cui confonde «cultura» e una parte assai limitata di essa, oppure per l’evidente poca conoscenza delle differenze tra cultura d’impresa e cultura industriale e si potrebbe andare avanti a lungo) ma non si parla di cultura (in Sardegna) in due righe… purtroppo. Una sola osservazione: manca l’ideatore dell’«arcaicità moderna», quindi sarà un meeting di poco spessore.
Cordialmente,
gentilissimo Gabriele, a mio parere, non necessariamente la “cultura” e il “bene culturale” devono “produrre reddito”. Tuvixeddu va tutelato perchè “è Tuvixeddu”, cioè un “bene culturale”, a prescindere dall’eventuale reddito che ne può derivare.
Così penso che debba esser sostenuta la “cultura” perchè è tale. Con razionalità e programmazione delle risorse, senza soldi a pioggia.
Non ho letto quanto scritto da M. A. Mongiu, cercherò di farlo, se potrò.
Capitemi, devo già rispondere a Giorgio Todde che se la prende con il GrIG e con me e pensa che il Consiglio di Stato abbia detto che i privati debbano riprendersi le aree di Tuvixeddu (vds. http://gruppodinterventogiuridicoweb.wordpress.com/2012/06/10/la-verita-disvelata-su-tuvixeddu-e-dintorni-secondo-giorgio-todde/#comment-5022). Amen.