Politica / Sardegna

A Portovesme la solita “sacra rappresentazione”: per chiedere per la Sardegna un futuro senza futuro

Portovesme, 27 dicembre 2024

I lavoratori di Portovesme non si sarebbero mai dovuti trovare nella drammatica situazione di poter perdere da un giorno all’altro il loro posto di lavoro, e questo per una ragione semplice: perché da almeno dieci anni la politica e i sindacati avrebbero dovuto lavorare per creare una alternativa a queste fabbriche il cui destino è segnato da tempo.

A spiegarcelo chiaramente fu Francesco Pigliaru che nel 2013, nelle vesti di ecomomista, nei mesi che precedettero la sua candidatura per il centrosinistra alla presidenza della Regione, in un editoriale pubblicato dalla Nuova Sardegna ci spiegò che “i lavoratori di Portovesme hanno diritto ad un lavoro ma non a quel lavoro”. Basta alluminio, basta piombo e zinco, lavorazioni ormai impossibili da portare avanti nell’isola: per Pigliaru bisognava immaginare una transizione e trasformare un polo dedito alla metallurgia pesante in uno in cui le maestranze potevano mettere a frutto le loro capacità per lavorazioni più sostenibili sia dal punto di vista economico che ambientale.

Una volta eletto presidente, Pigliaru non portò avanti questo epocale e sacrosanto progetto di riconversione, forse perché stritolato dall’oggettiva difficoltà dell’operazione e dai mostruosi condizionamenti che impediscono alla Sardegna di voltare pagina (Pigliaru stesso ne fece esperienza quando affrontò con la giusta determinazione la lotta alla peste suina): perché ogni volta che i nodi vengono al pettine, tutti i pettini si rifiutano di fare il loro lavoro, e anzi si coalizzano perché nulla cambi.

Passarono i cinque anni del centrosinistra di Pigliaru, passarono i cinque anni del centrodestra di Christian Solinas ed eccoci di nuovo qui, nei primi mesi di una presidenza Cinquestelle, davanti ai cancelli di Portovesme, spettatori dell’ennesima “sacra rappresentazione” dove il copione si ripete: il ministro che visita, il lavoratore che urla, il sindacalista che spiega, la presidente della Regione che come i suoi predecessori rassicura e il giornalista che racconta sempre la solita notizia. Tutti insieme, appassionatamente: ma fuori dalla realtà.

E ne è la riprova il fatto che un polo industriale ormai fuori dal mercato, con la filiera dell’alluminio morta da dieci anni, la centrale Enel in via di dismissione, e una fabbrica che da tempo dà segni di disimpegno, viene raccontato da tutti come se fosse pronto alle sfide del mercato.

Davanti ai cancelli delle fabbriche di Portovesme sfilano lugubri in corteo i personaggi di questa sacra rappresentazione, dove i vivi pronunciano formule magiche che dovrebbero garantire la resurrezione degli impianti morti. Ministri, sindacalisti, presidenti di Regione, lavoratori e monsignori recitano a turno la loro formula codificata da tempo, il loro abracadabra fatto di “È una chiusura inaccettabile!”, “Questa fabbrica deve restare aperta!”, “I lavoratori non resteranno soli!”, e in un profluvio di punti esclamativi scagliano maledizioni contro i padroni accusati di essere seguaci dell’unica religione che però loro, i “cattivi delle multinazionali”, hanno sempre coerentemente professato: quella del profitto capitalistico.

Da almeno dieci anni la politica sa che il destino del polo di Portovesme è segnato ma nessuno (perché, sia chiaro, mai nei suoi anni da sottosegretaria e viceministra Alessandra Todde ha parlato di Portovesme in maniera diversa dai politici di centrodestra e centrosinistra) ha lavorato per una riconversione, anzi: gli ingentissimi fondi del Piano Sulcis (800 milioni di euro) sono finiti proprio a sostegno di politiche industriali fallimentari, mentre con molta probabilità le risorse del Just Transition Fund non si riusciranno a spendere, posto che uno dei luoghi in Sardegna dove si concentrano maggiore potere e maggiore inefficienza è proprio il mitologico Centro Regionale di Programmazione.

E il Sulcis intanto (“L’eterno Sulcis” come titolò una volta Repubblica) condiziona con le sue logiche malate di consociativismo, rendite di posizione, parassitismo e ipocrisia il destino dell’intera Sardegna, come se il compito della politica e dei sindacati sardi (mai troverò parole sufficientemente dure per definire la loro miopia, il loro conservatorismo e il loro ruolo di freno allo sviluppo) fosse quello di mantenere in piedi a tutti i costi la follia Portovesme. E lo si è visto anche nella recente vicenda che ha riguardato il durissimo scontro sulle rinnovabili, dove alla fine le immaginarie esigenze industriali del Sulcis hanno spianato la strada ad una metanizzazione light voluta da questa giunta regionale, altro che lotta ai cambiamenti climatici.

Seguito dagli immancabili giornalisti (esseri senza memoria, pagati per raccontare il qui ed ora ma mai il prima e il dopo), il lugubre corteo sta per concludere la sua sacra rappresentazione. Il ministro fa la faccia dura, il sindacalista pure, la presidente della Regione anche, mentre un lavoratore a favore di telecamere lancia le ultime, minacciose formule magiche all’indirizzo della fabbrica e dei suoi padroni.

E così, come in un corteo felliniano, politici in abito scuro o tailleur, sindaci con la fascia tricolore, lavoratori col caschetto, monsignori con la pancia, presidenti di Regione, sindacalisti di ogni genere e colore, giornalisti, indipendentisti, linotipisti, esimi rappresentanti confindustriali, insieme a semplici passanti, si prendono per mano e recitano le ultime preghiere finali: 

“Dio del Capitalismo e della Cassa Integrazione in Deroga, noi ti preghiamo.
Fa’ sì che queste fabbriche benché morte, restino aperte per sempre. 
Noi ti preghiamo perché mai il cambiamento possa arrivare in queste lande desolate. 
Dacci la forza di non immaginare niente che non sia lo sfascio che noi oggi, con grande ipocrisia, cerchiamo di contrastare. 
Non ci abbandonare. 
Fallo per noi che vogliamo per la Sardegna un futuro senza futuro.
E così sia. Nei secoli dei secoli. Amen”.

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6 Comments

  1. Max Zonza says:

    L’Alcoa è chiusa dal 2008, l’Euralumina le è andata appresso. Tutti i sindacalisti che hanno promesso le riaperture, e i loro politici lecchini che sono scappati da Carbonia, prima in elicottero, poi in limousine ( Calenda in primis ), sono gli attori principali di una saga dell’orrore, le cui conseguenze pagano i lavoratori, senza stipendio, i commercianti, che non incassano da chi è senza stipendio, e il territorio tutto che non ha saputo darsi una smossa, in nessun senso. Una prece.

  2. Antonio Pili says:

    Quanta verità. Questa ineluttabile decadenza piena di ipocrisia e accidia non finiranno MAI. E i nostri figli se ne vanno..e fanno bene.

  3. Gabriele says:

    Condivido totalmente l articolo..e aggiungo la giunta Todde per seguire le follie pratobelliste pro gas ha distrutto qualsiasi speranza di conversione energetica in favore delle energie rinnovabili condannando la Sardegna definitivamente al tracollo economico avendo i costi energetici più alti d Europa proprio a causa del gas e degli idrocarburi..

  4. Stefano R. says:

    Grande Vito, come sempre uno che dice pane al pane etc., le verità scomode che nessuno dice trincerandosi nel passato invece che aprire al futuro.
    Su cui è giusto discutere, non ci sono ricette magiche ma bisogna andare avanti
    Con tanta stima

  5. Il Medievista says:

    Detto tutto…

  6. Luciano Lussorio Virdis says:

    Non mi ricordo di un articolo così azzeccato e argomentato sol problema Sulcis; l’incapacità di guardare al futuro da parte della politicae la testardagine di sindacati e operai che si accontentano di vivacchiare con la cassa integrazione e talmente evidente che cava gli occhi a tutti.

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