Paolo Pillonca (l’immagine è tratta da Vistanet)
Dopo essere stato protagonista di una delle più grandi figuracce che la storia della critica teatrale ricordi, l’ineffabile Franco Cordelli è tornato sul luogo del delitto.
Ricordate il suo articolo pubblicato dall’inserto La Lettura del Corriere della Sera? Ma sì, quello in cui si scandalizzava per la versione in sardo del Macbeth di Shakespeare firmata da Alessandro Serra (“Poi ci sarà Macbettu in sardo. Non vedo l’ora di non vederlo”). Se volete rinfrescarvi la memoria, questo era il mio commento (“Shakespeare in sardo non piace al Corriere della Sera? In poche righe, la pochezza dell’élite culturale italiana”).
Spernacchiato da più parti, giacché il Macbettu non solo ha vinto il prestigioso premio Ubu ma sta riscuotendo un clamoroso successo di pubblico e di critica non solo in Italia ma in tutto il mondo (con recenti tournée in Bolivia e Brasile, e altre date programmate per i prossimi due anni perfino in Giappone e in Cina), nel numero della Lettura di questa settimana Cordelli svela ai suoi lettori la drammatica verità: Macbettu non gli piace perché il nostro ritiene l’uso della lingua sarda nientemeno che “reazionario”. E questo a causa della “rivendicazione di un’identità” (nello specifico quella sarda) che oggi a suo dire riscuote successo perché
intimamente dovuto anche alle dominanti inclinazioni della società civile, come continuano a rivelare le pulsioni antieuropee. (…) È proprio il fine dichiarato, la scelta di dare voce alla sardità, a non dover essere considerato un fatto meramente soggettivo.
Quella di buttarla in politica è un vecchio trucco che funziona spesso ma in questo caso una riflessione su tanta pochezza di ragionamento è d’obbligo perché attiene al modo attraverso cui l’Italia guarda generalmente alle sue minoranze linguistiche. Cioè con un fastidio spesso neanche tanto malcelato.
Le uniche minoranze linguistiche da rispettare sono infatti quelle degli altri (ed è significativo che la Lettura di questa settimana dedichi due pagine al premio Ostana che in provincia di Cuneo da nove anni richiama esponenti di lingue minoritarie di tutto il mondo in una sorta di festival della biodiversità linguistica. Ma che problemi volete che diano alla pavida borghesia intellettuale italiana la lingua ciuvascia o la mazateca?).
Alla fine ci tocca anche ringraziarlo il povero Cordelli: semplicemente perché ha detto la verità, mostrandoci ancora una volta i limiti di una certa élite culturale italiana che ha fatto del provincialismo il suo vero segno distintivo.
C’è lo spread economico (e sappiamo cos’è, in questi giorni sta tornando di moda) ma c’è anche uno spread culturale che registra la distanza degli intellettuali italiani dai loro parigrado europei e mondiali, e di questo spread, di cui raramente si parla, Cordelli è chiaramente un inconsapevole simbolo. Il fatto che se ne vanti lo espone al ridicolo ed è segno ulteriore di una situazione italiana ormai compromessa (perché è dai limiti culturali del paese che discendono quelli economici, e non viceversa).
Invece provinciale non lo era per niente Paolo Pillonca. Quelli della mia generazione lo ricordano per le sue trasmissioni in sardo nella tv Sardegna Uno tra gli anni ottanta e novanta. Interviste semplici ed efficaci con le quali Pillonca faceva dell’ottimo giornalismo e dimostrava che far uscire il sardo dal ghetto del folklore (in cui spesso i suoi stessi estimatori inconsapevolmente lo rinchiudevano) era possibile. Bastava poco ma serviva soprattutto tanto coraggio. E Pillonca lo aveva.
Già trent’anni fa l’intellettuale e giornalista rispondeva dunque con intelligenza ai tanti Cordelli che in Sardegna e in giro per il mondo animavano la nostra scena culturale e che mortificavano il senso di una identità e di una appartenenza con argomenti speciosi. La sua è stata una azione culturale potentissima: perché senza quelle trasmissioni di Paolo Pillonca di trent’anni fa non ci sarebbe stato, banalmente, il Macbettu di oggi.
Per questo Paolo ti salutiamo oggi con grande riconoscenza: per aver dimostrato che la lingua sarda serve per raccontare il mondo, senza paure o preconcetti, senza ideologismi o sensi di inadeguatezza. Questo ce lo hai insegnato tu e non lo dimenticheremo.
Un abbraccio all’amico Piersandro e a tutta la famiglia.
Un saluto a Pillonca che se ne va troppo presto. E uno a Vito che, purtroppo, scrive sempre meno spesso su questo blog (“fatti miei!” dira’, giustamente, lui).
Antonello
Grazie Antonello, è che sto lavorando molto e il blog non è il mio lavoro :-))
un biglietto 7 euro per uno spettacolo che ne vale almeno 20. chi non l’avesse visto sappia che dovrebbe tornare a giugno al teatro Massimo.
Grazie Vito.
Grazie per questa tua pagina di riflessioni e ricordi.
E ancora una volta le parole e i pensieri di A. Gramsci anche su questo tema sono un faro, una guida.
Ora possono dialogare liberamente in Sardo, alla faccia dei fascisti d’ogni tempo.
Che gli sia lieve la terra.
Il fatto che poi Cordelli piagnucoli su fantomatiche “pulsioni antieuropee” e sulla cultura sarda scrivendo i suoi articoli in italiano e non in inglese rende il tutto ancora più esilarante. Internazionalista, ma solo per gli altri. Tipico, patetico provincialismo italiano.
Pillonca era un gigante, quelli come Cordelli sono solo dei nani che però non potranno mai neanche sperare di salire sulle loro spalle.
Grande Vito! Posso solo aggiungere la mia solita postilla: dal punto di vista linguistico, i dialetti non esistono, esistono solo le lingue. *Dialetto* è la definizione usata dalla cultura egemone per indicare la lingua delle culture subalterne. Ovvero: lingua è qualsiasi dialetto con un esercito alle spalle.
grazie Vito per il tuo puntuale ed esauriente commento per i vari cordelli, ma grazie ancor di piu per il ricordo del caro Paolo Pillonca. Sua la prima recensione del mio primo spettacolo.condoglianze alla famiglia