Gori e Riva: un sogno
Quella del 12 aprile è una data magica per noi tifosi del Cagliari: perché uno scudetto è per sempre e la gioia per quel successo, come per miracolo, non svanisce con il passare del tempo. Molti anni fa a Gigi Riva e a quell’impresa sportiva ho dedicato uno spettacolo (“Rombo di Tuono: scudetto e petrolio 25 anni fa”) e un documentario (“W Riva”). Poi sono seguiti tanti bei libri, tutti molto interessanti (tra i più recenti, ho apprezzato molto “Eravamo giovani nel 1967” di Antonello Deidda).
Un lettore del blog, Francesco Utzeri, mi ha inviato questo suo ricordo personale, carico di vita e di emozioni. “Sentivamo, in quelle vittorie del Cagliari, una sorta di rivalsa verso il destino che ci aveva portato lontani da casa in cerca di lavoro”, scrive. Parole che spesso ricorrono quando si parla di quello scudetto. Che noi festeggiamo ancora, anche per onorare i tanti giovani di allora che lasciarono l’isola in cerca di fortuna. Grazie a Francesco Utzeri per i suoi ricordi che ha voluto condividere con noi.
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Egregio Biolchini,
qualche giorno fa, il 12 arile, ricorreva l’anniversario della conquista dello storico scudetto del mitico Cagliari di Gigi Riva e in questa occasione mi permetto di scriverle per inviarle il mio ricordo di giovane emigrato, in quei (oramai) anni lontani.
Era giugno 1969. Finiti gli esami il 22, mentre tutti gli amici andavano già da un pezzo al mare, chi a Giorgino (o meglio la Scafa, visto che era raggiungibile a piedi), chi al Poetto (per chi poteva permettersi il lusso del biglietto del tram), io già sapevo di dover partire perché mio fratello Paolo, che già stava li da tempo, mi aveva procurato una prova di lavoro in quel di Torino.
La nave Canguro Rosso salpò da Cagliari alle 17 e, dopo una lunghissima ed estenuante navigazione di diciannove ore raggiunse Genova a mezzogiorno del giorno dopo. Non era la prima volta che viaggiavo, ma in ogni caso la prima volta da solo. Il viaggio sulla nave, pur se lunghissimo, fu piacevole perché nell’occasione ebbi modo di conoscere alcuni ragazzi (e ragazze) che si recavano in continente per la mia stessa ragione.
Fu subito simpatia e cameratismo, anche perché loro provenendo dall’interno dell’isola, se non ricordo male Irgoli, e non essendo mai stati neppure a Cagliari, volevano sapere tantissime cose sulla città. Alcuni di loro avrebbero continuato il viaggio verso la Germania e quindi non li ho mai più incontrati; altri, che erano diretti a Torino o comunque nel nord Italia, li ho rincontrati, talvolta, nei viaggi successivi.
L’avvicinamento alla meta finale del viaggio non terminò allo sbarco dalla nave, ma proseguì con un faticoso trasferimento a piedi verso la stazione ferroviaria di Porta Principe, poi un treno sgangherato fino ad Alessandria e poi, finalmente, Porta Nuova, la stazione ferroviaria di Torino.
Mio fratello Paolo mi attendeva alla stazione e subito mi accompagnò alla pensione, nei pressi di via Madama Cristina. Chiamare “pensione” quel posto era un complimento: alcune camere con quattro letti ciascuna, che davano tutte sul ballatoio al quarto piano senza ascensore, all’interno di un palazzo fatiscente, con un unico gabinetto per dodici persone. Il resto dei servizi era al piano terra, nel cortile interno.
L’impatto con la nuova città non fu esaltante, ed il malessere verso Torino l’ho portato dentro fino agli anni recenti, quando sono tornato in quella città, scoprendola anche bella.
La prova andò bene e quindi, il giorno 1° luglio 1969, entrai ufficialmente a far parte del mondo del lavoro.
Pian piano mi inserii in quella nuova realtà e, grazie alle possibilità economiche date dal salario mio e di mio fratello, cambiammo finalmente casa. Basta con la pensione fatiscente, basta con la fila per il gabinetto e con tutti gli altri disagi.
Mio fratello, che frequentava da tempo una associazione di lavoratori sardi, mi invito a partecipare alle iniziative del circolo, ma io preferii allargare le conoscenze, frequentando altri ragazzi della città e del resto d’Italia. Torino, in quegli anni, era popolata di giovani provenienti da tutte le parti ed era quindi facile fare nuove amicizie.
Per tutti loro io ero “il sardegnolo”, e non trovavo nulla di malizioso in questa definizione anzi, talvolta mi pareva anche simpatico sentirlo pronunciare dalle ragazze del gruppo.
Arrivò l’autunno e con il freddo pungente iniziò il campionato di calcio. Mio fratello, che come tutti gli immigrati faceva il tifo per la Juve, cercò di convincermi ad andare allo stadio ma a me del calcio non interessava nulla. Preferivo i dancing e le balere, dove si potevano fare nuove conoscenze e piacevoli amicizie.
Poi venne il giorno che a Torino arrivò il Cagliari di Gigi Riva.
I miei nuovi amici, soprattutto le ragazze, cominciarono a chiedermi notizie della squadra, dei calciatori, della città. Insomma, il fatto che il Cagliari fosse protagonista del campionato, mi aveva portato al centro dell’attenzione: quindi quella domenica, tutti allo stadio Comunale.
Era la prima volta che vedevo una partita di calcio di Serie A e fui affascinato e meravigliato. Affascinato da tutta quella gente che faceva il tifo per la Juve e meravigliato perché, pur essendoci i posti a sedere, tutti guardavano la partita in piedi. La partita terminò con un pareggio rocambolesco e questo contribuì a sollevare la mia popolarità fra i ragazzi del gruppo, ma anche la stima dei colleghi di lavoro.
L’inverno di Torino fu lunghissimo ma la nuova passione nata per il calcio contribuì a rendere meno difficile la permanenza in quella fredda città. La lontananza da casa e dalla famiglia, nonostante l’indipendenza economica e le opportunità di divertimento offerta dalla città, si facevano sentire. Attendevamo la domenica per seguire le notizie relative al Cagliari ed anche mio fratello, pur se juventino, ascoltava e gioiva delle vittorie dei rossoblù.
Sentivamo, in quelle vittorie, una sorta di rivalsa verso il destino che ci aveva portato lontani da casa in cerca di lavoro.
E poi giunse l’aprile 1970. Ogni domenica sera, dopo le partite del campionato, avevamo un appuntamento telefonico con la famiglia, a casa di amici poiché noi non lo avevamo, ma quella domenica del 12 aprile non riuscimmo a telefonare.
Il risultato della partita tra il Cagliari e il Bari fu determinante per la conquista dello scudetto. Il Cagliari era Campione d’Italia. Tutti si complimentavano, quasi che lo avessimo vinto noi quel campionato. In fondo era vero: quello scudetto era nostro, nessuno ce lo avrebbe mai più potuto togliere.
La bellissima memoria di quella memorabile giornata, vissuta lontano dalla Sardegna, è una gioia che ancora oggi mi commuove e ogni qualvolta incontro quel distinto signore, taciturno e serio, che passeggia solitario per le vie del centro di Cagliari, non posso che ringraziarlo per questa grande gioia e commozione che ci ha regalato.
Oggi come allora.
Francesco Utzeri
Bello. E commovente.