Alla luce di quanto ci ha raccontato finora, secondo lei il caso Cugusi come è stato trattato da mons. Mani?
«Come un caso di vendetta da parte di un vescovo incapace di trasmettere a quel presbitero tanto detestato il segno della benevolenza apostolica. Che non è mai un optional, è un obbligo della coscienza apostolica! Don Cugusi ha pagato, davanti all’autorità del vescovo, non davanti alla sua autorevolezza, anni di lealtà critica, che naturalmente si è accentuata quando, divenuto vicario foraneo delle parrocchie del centro storico (Cattedrale, Sant’Anna, Sant’Eulalia, San Giacomo – le Collegiate cioè –, il Carmine, l’Annunziata, il San Giovanni di Dio, Nostra Signora di Fatima al Villaggio Pescatori), egli ha avuto voce per interloquire su questioni di portata diocesana e non riguardanti soltanto la sua parrocchia».
Ad esempio?
«Ad esempio la pastorale di territorio, le vocazioni e il Seminario minore e regionale, il rapporto con la politica (che in don Giuseppe è diventato di collateralismo), ecc. Spesso l’accordo non è stato buono, e naturalmente se il resto del presbiterio – con le dovute eccezioni, s’intende! – tace, è sempre consenziente un po’ per convinzione, un po’ per opportunismo, cioè per non contrariare “il capo” e/o non averne disturbo di rimbalzo, allora la voce del controcanto sorprende e può infastidire. Poi i nodi vengono al pettine».
Ma davvero il clero di Cagliari è così acquiescente con “il capo”?
«L’ho detto prima, qui c’è tutta una tradizione di conformismo che parte, per rimanere alla storia moderna, all’Ottocento. Don Cabizzosu ha scritto delle pagine bellissime sul contrasto che oppose il padre Felice Prinetti, al tempo rettore del Seminario di via Università e fondatore della compagnia delle Giuseppine di Genoni, a monsignor Paolo Maria Serci, l’arcivescovo che era stato parroco di Sant’Eulalia prima di diventare vescovo di Ogliastra, e di passare quindi a Oristano e infine a Cagliari. Ma un conflitto che durò anni e fece storia è, a proposito di Sant’Eulalia, quello che oppose il presidente parroco Paolo Manca, vicino al gruppo della cosiddetta Democrazia Cristiana dell’Angioni e docente al Collegio teologico di Cagliari, all’arcivescovo Balestra, che lo aveva rimosso dal suo ufficio, dando spazio al parroco collegiato Luigi Pinna, che sarà poi colui che occuperà del rifacimento della parrocchiale fra il 1909 e il 1919, opera del Simonetti. Eccezioni, tutto sommato, anche se non è detto che sempre sia stato il prete ad avere ragione e il vescovo torto. Questi schematismi propri di chi va per partito preso sarebbero sciocchi. Ma certo è che proprio la formazione seminaristica ha modellato mentalità ubbidienti, e direi però anche deresponsabilizzate. Perché l’ubbidienza passiva, quella che don Milani contestava, è estranea di fatto al progetto; la partecipazione critica invece costruisce comunione, perché si pone nella logica della integrazione, delle autonomie che si incontrano e giocano insieme per l’obiettivo condiviso».
E così don Cugusi, per restare ancora a lui, è saltato. Niente da fare?
«Mi sono occupato della vicenda in primo luogo per l’amicizia personale con un prete di speciali qualità, di profonda dottrina sapienziale. Forse non si sa, la gente lo ha visto come il “prete del fare”, un po’ come don Cannavera. E invece e l’uno e l’altro, pur ciascuno con la sua peculiarità, con sono uomini di spiritualità e preghiera, di meditazione… Ma poi me ne sono occupato per l’amore alla parrocchia, alla sua storia, al suo quartiere di radicamento. E ricordavo come, giusto novant’anni fa, una situazione per certi aspetti analoga – considerando però che i contrasti scoppiarono all’interno della Collegiata, dopo la presidenza di don Pinna, succeduto al don Manca di cui ho detto prima – fu risolta con lo smembramento della giurisdizione della parrocchia».
Forse questo non è molto noto.
«Negli anni ’20, quando monsignor Piovella era presule diocesano da non più di quattro-cinque anni, gemmarono da Sant’Eulalia le parrocchie di Sant’Antonio Abate, nella via Manno – la chiesa dove conferenziò monsignor Roncalli nel 1921 –, e di Sant’Agostino, nella via Baylle. La prima fu affidata a don Federico Loi – che sarebbe rimasto parroco fino alla fine degli anni ’50 – e la seconda, dal 1925, a don Salvatore Cabras, fine intellettuale, già primo responsabile del “Monitore Ufficiale dell’Episcopato sardo”, che vide la luce nel 1909. Vicende di uomini e di comunità. L’abilità di monsignor Piovella fu di regolamentare quella articolazione canonica e territoriale, ottenendo la pace. Se ne potrebbe fare la storia, ci sono i “quinque libri” delle tre parrocchie nell’archivio storico di Sant’Eulalia così bene curato da don Cugusi. Ma certo allora la Marina contava diecimila abitanti, non i duemila di oggi… Era divenuto presidente parroco, allora, don Efisio Argiolas, personalità eclettica».
Torniamo invece all’argomento iniziale…
«Bisogna dire che nei confronti dell’autorità, le obiezioni in verticale non erano frequenti, né sotto l’episcopato Piovella né sotto quello Botto, quando pure non mancarono le forzature e anche le ingiustizie che fecero soffrire persone vive, in carne ed ossa».
Fra l’altro, di don Cugusi a Sant’Agostino si parlò nella scorsa estate come possibile soluzione al conflitto: don Lai a Sant’Eulalia e don Cugusi rettore a Sant’Agostino…
«Sì, però non credo fosse una soluzione praticabile. Non l’ho mai approvata. A Sant’Agostino – sotto certi profili forse la chiesa più bella della Sardegna, architettonicamente perfetta insinuatasi nel passaggio fra il gotico-catalano e il rinascimentale italiano – da trenta e più anni lavora don Vincenzo Fois, che ci ha faticato moltissimo, con i suoi giovani provenienti all’inizio da Villanova, realizzando quel tanto che si può vedere oggi. L’opera non è finita. E sarebbe dovere manco da mettere in dubbio che a lui, se sempre disponibile, debba lasciarsi la possibilità, l’onere e anche l’onore di completare il riattamento integrale del compendio, il ripristino degli altari, il restauro dei beni d’arte antichi e pregevoli. Per non dire del diritto degli Agostiniani che se non è strettamente giuridico lo è certamente sul piano storico e morale… Ma don Mario su questo punto ha sempre convenuto con estrema correttezza».
E l’ipotesi di officiare al Santo Sepolcro, pur di restare alla Marina?
«S’è parlato pure di questo, ma era una ipotesi intanto legata alla soluzione in bonis della vertenza parrocchiale coinvolgente anche il vescovo: don Marco Lai avrebbe retto la parrocchia, la cappellania del Sepolcro, ora in capo al parroco di Sant’Eulalia, sarebbe passata a don Mario che avrebbe avuto modo di continuare lì la sua cattedra esegetica che tanto consenso raccoglie fra persone che vengono da tutta la città e anche da fuori, così come per la sua messa delle 12.30 onorata sempre con una omelia coi fiocchi. Egli avrebbe anche potuto forse accentuare l’accordo ecumenico con la comunità ortodossa che al Santo Sepolcro officia la domenica e si ritrova anche in altri giorni. Inoltre da quel punto, nel cuore della Marina, avrebbe potuto proseguire nella cura di quegli interventi archeologici, ora mirati all’area di Santa Lucia, già avviati ma che presto decuplicheranno la loro dimensione».
E cosa ha impedito di concludere positivamente?
«Il ricorso al provvedimento di rimozione firmato dall’arcivescovo, direi. Una volta che si è in una fase contestativa, non si può fare un accordo di questo genere. Anche se forse, limitatamente agli scavi che sono in programma a Santa Lucia, don Mario continuerà ad occuparsene per libera delega del suo successore a Sant’Eulalia».
Ecco, il ricorso. E da qui riprendiamo la cronaca delle denunce o segnalazioni che da Cagliari sono partite alla volta del Vaticano contro gli atti di governo dell’arcivescovo.
«La lettera del 10 agosto 2010, di risposta della Congregazione del Clero – a firma sia del prefetto che del segretario divenuto adesso pro-prefetto, per l’intervenuto pensionamento dell’anziano cardinale Hummes –, chiedeva la trasmissione della documentazione, naturalmente anche di quella che, nella forma del ricorso avverso il provvedimento di rimozione, avesse inteso fascicolare don Mario. Da lì, dunque, i percorsi sono mossi in piena e reciproca autonomia. La questione di Sant’Eulalia veniva affrontata dal parroco estromesso con le ragioni di diritto, come richiesto. E dai firmatari laici – i quidam della città – con un dossier dettagliato che, dal punto di vista non del diritto ma della morale comune e dell’interesse spirituale della comunità – quella parrocchiale e quella diocesana – consentisse una presa di conoscenza più mirata delle cose nostre da parte dei responsabili di Curia».
Ma responsabili di Curia chi?
«E’ stato scritto, per fuga di notizie che ritengo incauta, già da molto tempo sulla stampa: il cardinale Bertone, monsignor Piacenza – attuale pro-prefetto della Congregazione del Clero, abile regista dell’appena concluso anno sacerdotale –, il cardinale Ouellet, prefetto della Congregazione dei Vescovi, e i vertici della CEI. Il dossier inviato in via riservata ai loro uffici è bene che resti ancora riservato. E’ stato comunque riferito ai destinatari che ove la risposta sia nei termini della inerzia altre volte registrata, se ne darà pubblicità qui a Cagliari. E si porrà allora la questione della coerenza fra il dire e il fare, fra gli indirizzi di etica ecclesiale, per non dire d’altro, forniti da papa Benedetto e gli adempimenti operativi dei suoi diretti collaboratori. Con nomi e cognomi. Mi pare tutto molto corretto».
Ma gli argomenti?
«Quelli cui ho già accennato: la vicenda di Sant’Eulalia, che non era presente evidentemente nella prima lettera partita in un tempo antecedente al decreto o all’annuncio vescovile di rimozione con la formula della “cessazione dall’ufficio” per scadenza di calendario: i famosi 9 anni della prima nomina voluta dall’arcivescovo Alberti; la vicenda del diacono privato della ordinazione presbiterale e imprigionato in un processo-farsa…».
A proposito: è stato detto che il processo è stato sospeso. E’ vero?
«Verissimo. Ecco facciamo questa precisazione. Una autorità apicale della gerarchia vaticana, per interessamento partito proprio dalla Sardegna, ha preso a cuore la questione ed ha voluto vederci chiaro. Gli è bastata un’ora soltanto, ascoltando e leggendo, per capire che si trattava di una montatura, dico l’accusa di diffamazione a carico del nostro giovane chierico: accusa messa su per impaurirlo e indurlo alla ritrattazione circa l’osceno episodio accaduto nella parrocchia della capitale. Gli è bastata un’ora soltanto per inquadrare tutto, capire chi aveva davanti e intervenire formalmente sul cardinale vicario di Roma, che ha infine firmato la sospensione del procedimento. In questo ultimo decreto di sospensione è appunto richiamato il provvidenziale intervento di chi ha mostrato di avere, almeno lui, almeno in questo caso, il senso della giustizia!».
Ma monsignor Mani, recentemente, in occasione della conferenza stampa di presentazione degli undici diaconi che avrebbe ordinato tre giorni dopo, ha giustificato – a domanda di un giornalista dell’Unione Sarda – proprio con l’argomento del processo in corso la confermata esclusione del chierico in attesa. Non è stata una forzatura, se è vero che il processo era bloccato e forse archiviato?
«Certo che è stata una forzatura, ma si potrebbe dire di più. E spiace che un successore degli apostoli non tenga nella giusta considerazione il dovere della pienezza della verità, quanto meno della verità dei fatti! Correttamente però, il cronista dell’Unione Sarda ha riportato quanto da lui raccolto negli stessi locali del Seminario, dove si era svolto l’incontro con i giornalisti, sul processo incardinato il 14 aprile e sospeso, e potrei dire archiviato, il 4 giugno, appena cinquanta giorni dopo».
Torniamo alle questioni trattate.
«Il terzo capitolo della lettera è bene resti ancora riservato. Ma naturalmente riguarda materia di competenza della Congregazione destinataria dell’esposto».
Tutto qui?
«Va detto che gli episodi segnalati all’autorità vaticana hanno tutti un merito in sé, ma valgono e contano tanto più se visti come emblematici di un governo pastorale che nel giudizio di molti si è rivelato assai scadente, inadeguato. Certo, sostenere questo è limitarsi ad esporre un’opinione che, come ho detto prima, vale quello che vale: nulla, se non parlano i fatti. Per questo, poiché è lungi da me, ma anche da chiunque altro si sia impegnato su questo fronte, ogni intenzione di dileggio verso l’arcivescovo – rispettato come persona e per l’ufficio – ed anche verso i suoi atti, io credo che si possa e si debba puntare al confronto sui fatti, uscendo dagli slogan generici. Io ho cercato di dare un contributo…».
Quello riportato sul numero zero di Cresia.net?
«Esatto. Lì c’è un catalogo di temi. Sarebbe interessante procedere al confronto di conoscenze, di argomenti, di tesi… Sull’abbandono totale, da parte degli studenti filosofi e teologi dell’archidiocesi, del Seminario maggiore per migrare forzatamente sui lidi laziali. Giusto? E come fa l’arcivescovo di Cagliari, che è anche presidente della Conferenza Episcopale Sarda e gran cancelliere della Facoltà teologica, a difendere queste istituzioni formative e accademiche se nel concreto, come ordinario diocesano, egli le delegittima nel nome della pretesa “sprovincializzazione”? E’ una domanda che pongo».
Ma su questo punto quale è l’opinione degli altri vescovi sardi che i loro studenti continuano invece a mandarli, salvo errore, al Seminario regionale e non a Roma?
«Intanto vorrei chiarire che sempre i vescovi, anche gli arcivescovi di Cagliari, hanno mandato alcuni loro studenti o giovani preti a specializzarsi a Roma. Ricordo il compianto canonico Giuseppe Littarru, l’amico del cuore di Giovanni XXIII, colui che andò alla stazione Termini a ricevere il giovane Roncalli, diciannovenne studente proveniente da Bergamo, nel gennaio 1901, lui era un prete giovanissimo mandato dal suo arcivescovo di Oristano a specializzarsi a Roma, al Seminario romano. Di quegli stessi anni sono – vado adesso in rapida memoria, ma per dire di preti rimasti nella storia della Chiesa locale – il servo di Dio Virgilio Angioni, futuro fondatore dell’Opera del Buon Pastore, il canonico Giuseppe Lai Pedroni, che tornando a Cagliari sarebbe stato vari anni parroco collegiato a Sant’Eulalia – sempre Sant’Eulalia! – e successivamente anche vicario generale immortalato nella tela del Figari sulla volta del duomo, anche lui sospettato di modernismo quando si cacciavano le streghe… Delle altre diocesi ricorderei dottor Giuseppe Ortu, che ho studiato bene, un guspinese che con bolla papale fu per molti anni vicario a Villacidro… Ma detto questo, è detto che il fenomeno riguardava qualcuno soltanto dei chierici, scelto a discrezione dell’ordinario, non tutto il plotone! E dunque: quale il giudizio dei vescovi sardi su questo massivo abbandono, da parte degli studenti cagliaritani, della istituzione che Pio XI volle, nel 1927, come strumento per elevare il livello di conoscenza reciproca fra i giovani del nuovo clero, oltre le chiusure delle singole diocesi? Si potrebbe obiettare che un tempo – negli anni ’20 o ’30 e fino al Concilio almeno, alla mobilità che prende la rincorsa negli anni del miracolo economico e dopo ancor più – il bisogno di “mischiare le carte” fra i seminaristi di Ozieri e Cagliari, di Iglesias e Nuoro, di Gallura e Ogliastra, Bosa e Oristano, Alghero e Marmilla era maggiore di quello avvertito oggi. Oggi non ci sono più le isole nell’Isola, salvo eccezioni che certo non riguardano il giovane clero».
E dunque?
«E dunque si potrebbe obiettare che il salto del Tirreno – ma allora perché non dell’Oceano? – aiuterebbe veramente ad allargare il proprio orizzonte culturale, la dimensione e la prospettiva del pensiero. Non è che l’argomento non abbia un suo fondamento. Ma io obietto questo: in primo luogo, il territorio isolano è quello al quale è destinato il giovane clero ora allo studio; non appare congruo, perciò, strapparlo dalle esperienze della vita vissuta della società di riferimento, della società nella quale si sarà chiamati al servizio delle comunità, ad accompagnare le comunità nella fraternità maggiorenne che compete al presbitero. In secondo luogo oppongo quest’altro argomento: se questo bisogno di saltare in blocco il Tirreno vale per Cagliari perché non deve valere per Lanusei e per Sassari? E se deve valere per tutti perché non si ha il coraggio di dire che l’istituzione Seminario regionale è superata?».
Forse proprio perché ci vuole coraggio…
«Quello stabilimento, non soltanto come edificio che pur tanti sacrifici materiali è costato, è costato nell’ultimo trentennio la fatica di equipe educative di primario livello… Ed a pensare ai rettori, per prenderne due ai poli pressoché terminali del calendario, dopo il trasferimento da Cuglieri a Cagliari e nel collegamento sempre con la Facoltà, direi che i nomi di don Ottorino Pietro Alberti e don Efisio Spettu raccontano molto, moltissimo anche dello sforzo di legare la formazione dottrinale, giuridica, storica, specialistica dei chierici alla vita contemporanea, evitando di fare del Seminario un’area separata dalla società civile. E per questo ecco infatti le “contaminazioni”, magari più sul versante culturale con don Alberti, più su quello sociale con don Spettu».
Ma il giudizio dei vescovi?
«Mi risulta di grande inquietudine. E pari inquietudine mi dicono sia avvertita anche presso la Congregazione dei Seminari e delle Università, nella Curia vaticana. Ma qui si pagano anche le contraddizioni del sistema ecclesiastico. Perché don Giuseppe Mani, divenuto presidente della Conferenza Episcopale Sarda nel 2006, dopo il mandato triennale dell’arcivescovo di Oristano Pier Giuliano Tiddia, è stato eletto mica dallo Spirito Santo, ma dalla maggioranza dei suoi confratelli, in larga prevalenza sardi: perché tolto Lanzetti di Alghero-Bosa e Mani stesso… Qui il discorso rischia di farsi sgradevole e lo vorrei evitare: ma è chiaro che se in un ballottaggio che mi oppone, metti, ad Antonio Sellent, io non mi voto e Sellent si vota da sé, se Sellent recupera il voto di un amico stretto, quello di uno scontento che mi detesta e mai voterebbe per me, quello di uno che ha in previsione di prendere casa vicino a lui… la maggioranza si forma, io perdo».
Conclusione?
«Conclusione è che se perdo io e vince Sellent, bisogna che Sellent onori il suo ufficio di primus inter pares rappresentativo del condiviso, dell’unità istituzionale, dell’organismo tutto intero con quanto da quell’organismo deriva: intendo il Seminario regionale e la Facoltà di Teologia. Se non lo fa, se anzi delegittima quelle istituzioni formative, lasciandole ai residuali – i chierici delle altre diocesi il Seminario, i laici che magari vogliono un insegnamento di religione nelle scuole pubbliche – io non credo che onori il suo ufficio di rappresentante del condiviso, della unità istituzionale…».
Conclusione potrebbe essere che, anche dal recinto specifico della Chiesa o dei vescovi, i sardi un’altra volta ancora si sono mostrati divisi, e per ragioni “inconfessabili” consegnano un interesse comune a chi lo amministra da colonialista. E’ eccessivo?
«Anch’io parlo di colonialismo, da questo punto di vista, pur se i sorrisi alla nostra realtà, e i complimenti si sprecano ogni giorno. Non abbiamo bisogno di pacche sulle spalle, abbiamo bisogno di rispetto. Ma il primo rispetto ce lo dobbiamo da noi. Pazienza. Però non è che tutto si chiuda qui. Perché le conseguenze ci sono. E tutto si lega. Perché, non si subisce genericamente una presidenza che si è contributo a eleggere, si subisce ogni contraddizione di quella presidenza: dalla migrazione dei teologi all’accantonamento brutale dei deliberati del Concilio Plenario Sardo, e perfino della sua ispirazione, con sostanziale irrisione della fatica più che decennale che essa è costata».
Ecco, approfondiamo anche questo punto.
«Se ripenso al Concilio Plenario Sardo, che pure tanti limiti ha avuto a mio modesto modo di vedere, ripenso ai vescovi che lo hanno condotto nell’arco di tempo che è andato dal 1986 – quando è stato convocato dal presidente della CES l’arcivescovo Canestri – o comunque dal 1989 quando le sottocommissioni hanno iniziato a riunirsi, essendo ormai presidente della CES l’arcivescovo Alberti – al 2001, alle conclusioni in Bonaria. Ma ripenso alle fatiche del segretario generale, al quale tutto è arrivato e dal quale tutto è ripartito nelle sessioni decentrate di lavoro, dico l’arcivescovo Tiddia. E ripenso sopra tutti, vorrei dire, a padre Sebastiano Mosso oggi in benedizione, la “mente dotta” di quell’evento, l’estensore di larga parte dei testi conclusivi ammirati dai tanti che, ai massimi livelli, hanno letto quelle pagine così impegnative».
Ma tutto era finalizzato a cosa?
«A una pastorale interdiocesana, con respiro regionale proprio per meglio coordinarsi – con gli strumenti propri della Chiesa – con la universalità, nella comunione cattolica. Si prendano i titoli del Concilio e si vedrà lo spettro largo delle trattazioni, si prendano a caso capitoli e paragrafi, e ci si renderà conto della pregnanza delle analisi, delle proposte, delle prospettive affacciate per l’oggi e il domani della Chiesa sarda, attraverso la valorizzazione del suo patrimonio di storia e religiosità: dai carismi della vita consacrata alla chiamata universale alla santità, all’essere giusti cioè, almeno giusti se non eroi,… dai ministeri della gerarchia (e mettici dentro spiritualità, povertà, celibato, preghiera, formazione permanente, accompagnamento dei giovani, ecc.) agli organismi regionali “a servizio della evangelizzazione e della pastorale”, dall’organizzazione diocesana e parrocchiale in chiave sempre più e meglio partecipativa ai filoni di evangelizzazione in direzione della famiglia (ad iniziare dalla preparazione al matrimonio e alla responsabilità procreativa ed educativa), dalla catechesi di bambini, giovani e adulti e anche delle aggregazioni alla liturgia e celebrazione dei sacramenti, dal rapporto Vangelo-cultura, al rapporto fra evangelizzazione e sistema scolastico/universitario e massmediale, dalla pietà popolare ai beni culturali e architettonici di cui è custode la comunità ecclesiale, dalla socialità ecclesiale alla condivisione, attraverso un volontariato che deve essere vocazione di tutti, della sorte di infermi, anziani, carcerati, disoccupati, emigrati e immigrati, famiglie divise e persone marginali di ogni nascita e categoria sociale…».
Un programma imponente!
«E all’interno di taluno di questi capitoli ecco le letture dei fenomeni della violenza urbana e rurale, degli spostamenti demografici fra aree della stessa regione, verso i cardini metropolitani soprattutto, la condizione dei centri agricoli a rischio di spopolamento e di quelli industriali a permanente esposizione alle volubilità del mercato… e naturalmente la politica, il pensare politico e il fare politico dei cristiani da cristiani, non dentro uno stesso partito per dogma, ma nella società e nelle istituzioni».
E poi che ne è stato di tutte queste belle intenzioni?
«Che la prima azione posta in essere dal presidente della CES eletto alla fine del 2006 è stato l’accantonamento del Concilio. Detto e fatto. Detto senza mezzi termini, da quanto i vescovi mi hanno riferito. E si è subìto, si è patito questo. Dal 2001 al 2006 diverse modifiche all’organico della Conferenza Episcopale Sarda si erano registrate, di più ancora quelle rispetto agli anni immediatamente precedenti. Ormai la metà della CES non sentiva come lavoro proprio, come dovere proprio quello di dare attuazione al Concilio che è rimasto fatica forse sterile, e un libro da mettere in biblioteca».
(fine quarta parte/continua)
@Franco Anedda il mio nickname è anonimo esattamente come il suo nome visto che non è verificabile, i nickname non cambiano di una virgola un dibattito, a meno che lei quando parla con qualcuno di sconosciuto gli mostri la carta d’identità per dare maggior peso a quello che dice.
Il relazionarsi avviene anche tra persone che sono sconosciute come nel nostro caso.
Il suo rispondere ad una domanda con un altra domanda mi fa pensare che lei abbia influenze gesuitiche.
La chiesa non può dire pubblicamente che il vescovo ha sbagliato, a dicembre andrà in pensione e non rimarrà un giorno in più rispetto alla sua scadenza, l’ordinazione del diacono è stata fermata molto prima di questa estate e del problema di S.Eulalia, e infatti non parlo affatto di Cugusi, ma della copertura e del tentativo di insabbiamento della denuncia. Ed è questo atto che è obiettivamente malvagio.
Il vescovo ha piena competenza per ordinarlo quanto per fermarlo come ha fatto per farlo ritrattare, altrimenti al suo ritorno da Roma non ci sarebbe stato nessun problema per l’ordinazione.
Se il diacono si fosse inventato tutto non verrebbe affatto ordinato, traggo conclusioni di causa-effetto, se fosse tutto completamente inventato, sarebbe stato molto semplice dimostrarlo, visto che si è cercato per molto tempo di risolvere la questione in maniera privata e prudente.
Dire che ora che è diventata pubblica sono solo diffamazioni equivale a tentare l’insabbiamento.
Il cristiano non si erge a giudice del tradimento altrui, ma deve discernere dalle azioni che sono oggettivamente malvagie e di ogni omissione e di ogni “voltare la faccia per non vedere”, è chiamato a renderne conto, sopratutto è chiamato ad applicare la correzione fraterna (Matteo18,15-17, Galati 6,1),
e i ministri della chiesa non sono sopra questa legge.
Io non giudico e condanno, affermo che le azioni che si sono poste in essere non avevano come fine il bene, e che anzichè fermarsi quando internamente alla chiesa sono state denunciate, si è proseguito a compierne di peggiori per non doverne rispondere.
Per la cronaca, gli apostoli erano in maggior parte pescatori e molto probabilmente illetterati, sono stati scelti proprio perchè fosse evidente che il vivere il nuovo annuncio cambiava in meglio la loro vita e quella delle persone con cui si relazionavano, la parola chiave è “vivere”.
La messa va vissuta non seguita e le sacre scritture vanno incarnate non meditate, gli atei lo sanno fare molto meglio dei cristiani per utilizzarle contro di loro.
Il cristianesimo è esperienza di vita non dispute filosofico legali.
Qualora non lo avesse ancora visto le consiglio questo film: http://www.youtube.com/watch?v=Bbcc38SZELc&feature=related
Lei dice: “Il cristianesimo è esperienza di vita non dispute filosofico legali.” il vescovo Cirillo sarebbe stato d’accordo con lei.
Io sento che le parole di mons. Mani fanno bene alla mia anima e nei suoi atti ho visto l’amore cristiano verso il prossimo.
Essere cristiano senza amore verso l’altro, porta a fare il male convinti di fare bene; lei ama il suo Vescovo?
In una cosa le do ragione: il mio Padre Spirituale è un gesuita: questo può avere influito sulla mia formazione.
Di cosa parla il film del trailer ?
Mi fa piacere che le parole di mons. Mani le arrechino beneficio così come anche gli atti d’amore che compie, ma questo non deve portare a non vedere anche quelli che non sono oggettivamente azioni di bene.
Sarebbe come se per ogni buona azione compiuta un cristiano fosse autorizzato a peccare senza essere ripreso.
Io amo qualsiasi mio simile di qualunque sesso, religione, razza e censo (incluse tutte le varianti possibili), a ragione della dignità di qualsiasi persona, con in più tutte le aggiunte che il cristianesimo comporta, e proprio perchè mi interessa il mio prossimo non posso voltarmi da un altra parte quando sbaglia.
Capisco che sia molto più comodo farsi gli affari propri, ma in questo modo nessuno cambia in meglio, tanto più chi si volta per non guardare e non mettersi problemi.
Chiunque può sempre cambiare in meglio, il primo passo è accorgersi che si sta sbagliando, se lo si fa da soli tanto meglio, se lo fa notare qualcun’altro è più doloroso ma è sempre una occasione per verificarsi e migliorare, tra cristiani si chiama conversione.
Qui la trova trama ed alcune disquisizioni sul film.
http://it.wikipedia.org/wiki/Agora
Partiamo da premesse inconciliabili: lei ritiene che il nostro Arcivescovo sia sicuramente in difetto, io ritengo che, mancando prove di qualunque difetto che non sia il “non avere grazia per tutti”, gli si debba rispetto e gratitudine per il suo apostolato.
Ricordo ancora una volta che tutto è partito dalla sostituzione di un parroco.
@Franco Anedda, credo che lei abbia problemi relazionali, questo porre delle frasi rivolgendosi al plurale evidenzia che lei crede di essere davanti ad una platea contro la quale combattere, e questo pone il suo relazionarsi su un piano sbagliato, visto che le ho posto delle semplici domande.
Il nulla che lei dice sono domande, conosce la differenza tra una domanda e le argomentazioni che non le devo visto (compreso lo sforzo) che lei ha scritto una tesi e io le ho chiesto di spiegare ?
Tra qualche mese, se il diacono verrà ordinato, avremo la prova che non mentiva e che il nostro vescovo ha coperto un abuso e ha anche tentato di nasconderlo imponendogli l’obbedienza per nascondere la verità (cosa si deve scegliere tra verità e obbedienza secondo lei ?).
Che vada in pensione o meno è indifferente visto che di questo comportamento ne dovrà rispondere al suo “datore di lavoro” che in questi casi consiglia delle macine al collo.
Lei si preoccupa delle disquizioni e di fini intellettuali e di sofismi (io non ne ho scritto), per un cristiano questo non è affatto importante, importante invece è il tradimento di qualsiasi scelta dichiarata pubblicamente del bene sul male, ma all’ atto pratico inversa, aggravata dalla mansione di pastore di anime.
Il figlio di un falegname si è fatto crocifiggere innocente, sarebbe quantomeno delicato che chi dichiara di servirlo abbia la tendenza ad essere limpido ed evangelico nelle azioni, solo da questo avrà autorevolezza, non dai voti di altri fallibili e corruttibili uomini.
Saluti
(gli altri a cui si rivolge non so chi siano e non so se la vogliano salutare)
A mio parere ha più problemi a relazionarsi chi si nasconde dietro un nickname…
Io sono in grado di riconoscere una domanda assertiva quale la sua: “Trovo alquanto strano che lei obietti su questioni di contorno e non su questioni ben più importanti come le cancellazioni di lavori collegiali, questo non le sembra totalitarismo in azione ?”
Lei, nella sua domanda, dà come dato di fatto le presunte cancellazioni, io le ho chiesto: quali cancellazioni?
La sua risposta è che non mi deve argomentazioni: mi permette di non crederle?
Lei prosegue con altre affermazioni nelle quali compie un deragliamento logico che non seguo.
Afferma: “Tra qualche mese, se il diacono verrà ordinato, avremo la prova che non mentiva e che il nostro vescovo ha coperto un abuso e ha anche tentato di nasconderlo imponendogli l’obbedienza per nascondere la verità (cosa si deve scegliere tra verità e obbedienza secondo lei ?).”
Secondo logica, quando il diacono sarà ordinato avremo prova unicamente del venir meno delle condizioni ostative per tale ordinazione. Su tali condizioni l’Arcivescovo non mi risulta avesse competenza a decidere.
Le sue illazioni, ben lungi dal venire provate, restano illazioni, a mio modo di vedere pure diffamatorie.
Per un cristiano è importante il tradimento che, ripetutamente, *lui stesso* compie nei confronti di DIO, il cristiano non si erge a giudice del tradimento altrui. (Vangelo: Lc 6,36-42)
Se poi uno pretende pure di giudicare, e condannare, i ministri di Dio e ne contesta l’autorità, a mio modesto parere, si pone fuori della Comunità Ecclesiale.
Una domanda mi sorge spontanea: Questi novelli “Torquemada” a catechismo ci sono andati? Quando seguono la Santa Messa meditano sulle Sacre Scritture?
Sembrerebbe proprio di no.
@Franco Anedda può argomentare le sue opinioni ?
Altrimenti sono opinioni su quelle altrui, questa lunga intervista parla di fatti che tra qualche mese in base a quello che accadrà sarà verificabile se corrisponde a verità.
Trovo alquanto strano che lei obietti su questioni di contorno e non sul questioni ben più importanti come le cancellazioni di lavori collegiali, questo non le sembra totalitarismo in azione ? Quello che invece indica nell’ esposizione da parte dell’ intervistato è solo un modo di esporre, non di imporre il proprio pensiero.
Tutta l’intervista si basa su opinioni dell’intervistato, illazioni e questioni di contorno.
Lei vorrebbe che io obbiettassi su “cancellazioni di lavori collegiali”, a suo dire dimostrazione di “totalitarismo in azione”.
Se facesse un piccolo sforzo ed esponesse l’argomento, dimostrando pure che tali cancellazioni si sono verificate, magari arrecando danno alla Comunità Diocesale, il suo contributo alla discussione potrebbe elevarsi rispetto al nulla del suo post precedente.
Tra “qualche mese” cosa avverrà?
Mons. Mani mi risulta che andrà in pensione, questo sarà la dimostrazione che avevate ragione?
Sono davvero perplesso: i fini intellettuali che attaccano in nostro Arcivescovo mi sembrano dei fuffaroli con il quale non c’è neppure gusto a dibattere.
Dati di fatto ne avete? Avete visto i video in rete?
Secondo voi è possibile difendere il comportamento di don Cugusi? Volete provarci?
I vostri sofismi possono giustificare la sua ribellione nei confronti del proprio Vescovo, quello al quale aveva precedentemente giurato obbedienza?
Come potete negare che tutto quanto è avvenuto dopo la sua rimozione ha confermato che tale decisione era giusta, opportuna ed improrogabile?
Stiamo ai fatti e discutiamo dei fatti, il settarismo e la dietrologia sono un cancro dal quale è meglio liberarsi.
Sottolineo un cammeo, nel quale si raggiunge l’apice nello sproloquio allusivo del “nostro” esperto di cose di Chiesa:
“Qui il discorso rischia di farsi sgradevole e lo vorrei evitare: ma è chiaro che se in un ballottaggio che mi oppone, metti, ad Antonio Sellent, io non mi voto e Sellent si vota da sé, se Sellent recupera il voto di un amico stretto, quello di uno scontento che mi detesta e mai voterebbe per me, quello di uno che ha in previsione di prendere casa vicino a lui… la maggioranza si forma, io perdo».”
Murtas vorrebbe evitare di fare un discorso sgradevole ma proprio non gli riesce.
La sgradevolezza però viene da una sua visione della realtà totalmente avulsa dai fatti, fatti che lui si ingegna a rielaborare in maniera che possano essere compatibili con le sue asserzioni.
Pure una normale votazione “inter pares”, il cui risultato lui non condivide, può diventare, grazie ad illazioni totalmente infondate, un qualcosa di mefistofelico.
Murtas evidenzia di possedere una base culturale comune ai totalitarismi: l’obbligo di sottostare ad un pensiero unico, pure se poco intelligente.