Un’immagine della recente organizzazione della Cgil al Circo Massimo di Roma
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La classe dirigente sarda ora segue chi comanda a Roma. Prima era Torino, Madrid, Barcellona (ma con 150 anni, però, di guerre guerreggiate), Pisa e… via via risalendo nel tempo. Nell’epoca delle grandi organizzazioni burocratiche i funzionari sardi già non contano per ragioni numeriche. Allora devono essere i più bravi a rappresentare gli interessi delle proprie associazioni nazionali (cosidette, perché non sono altro che le “nazionali italiane”, visto che esistono da noi anche le “nazionali sarde”) oppure a recitare la lamentela dei sardi “sempre sfruttati ed abbandonati” (sicuramente vero, ma che dovrebbe portarli a ben altro che a lamentarsi…).
Questo troppo sommario attacco di un articolo che non può essere lungo riguarda i partiti, i sindacati dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori autonomi, gli imprenditori, le associazioni sportive e culturali, tutto l’insieme degli organismi economici, sociali, culturali, politici in senso lato. L’istituzione regionale sarda è il concentrato di questo fenomeno e la sintesi delle sue conseguenze. Ne ho parlato altrove, il residuo antico di questo modello comportamentale è l’organizzazione della Chiesa cattolica. In tutte le situazioni si dà una costante: la dirigenza sarda legittima Roma ed i suoi interessi complessivi in Sardegna, ma soprattutto legittima il permanere del proprio potere sui sardi con il richiamo a Roma. I sardi, purtroppo, non stimano né amano la propria classe dirigente: per una serie di motivi che meriterebbero da soli un saggio, che forse sarà il caso di elaborare.
Oggi all’ordine del giorno c’è il sindacato, con le conseguenze della manifestazione del milione cgiellino contro il segretario-presidente della sinistra, in una settimana in cui il renzismo ha vissuto la sua prova più difficile. Il sindacato italiano è un grande animale ferito che non vuole né morire né cambiare. Il sindacato sardo, trasformato in un’organizzazione di pubblico impiego concentrato nelle città, alla maniera del terzo mondo, corre in suo aiuto consapevole degli effetti in loco della delegittimazione delle sue centrali “nazionali” (italiane). Si legga con questo significato la pagina de l’Unione Sarda di venerdì scorso.
Il cuore del problema è bene espresso dalla Camusso nell’intervista a Repubblica:
“…questo governo non ha alcuna disponibilità a confrontarsi con chi, come i sindacati, rappresenta interessi generali non corporativi”.
Interessi corporativi sarebbero quelli della Fiat e degli imprenditori, in primis quel Marchionne puparo del giovane “segretario fiorentino”. Le organizzazioni dei lavoratori dipendenti rappresenterebbero gli interessi generali mentre le altre associazioni – Confindustria e via dicendo dei settori delle imprese, la Coldiretti ed il variegato mondo agricolo, la Confcommercio, le leghe delle cooperative e via elencando – sarebbero espressione, secondo la Camusso, di interessi corporativi.
Il silenzio sul tema da parte di queste associazioni sarebbe un dato esso stesso da spiegare, ma stiamo al punto. Perché le organizzazione dei lavoratori dipendenti rappresenterebbero “interessi generali” mentre i sindacati dei lavoratori autonomi (imprenditori, artigiani, coltivatori, professionisti) esprimerebbero solo “interessi corporativi”?
Vediamo: quando un governo, anche (soprattutto se) gestito da partiti di sinistra, intende creare lavoro, quali sarebbero i suoi referenti? Certo, gli investimenti pubblici, qualora le finanze lo permettessero. Ma è soprattutto il lavoro autonomo, anche quando è riunito in cooperative, a risolvere il problema dell’occupazione per chi non ce l’ha e da solo non è in grado di costruirselo.
E allora: perchè la Camusso – e, dietro di lei in crescendo, il coro di tutti i personaggi, individui e collettività che si sentono minacciati dalle scelte del governo Renzi – individua nel sindacato dei lavoratori dipendenti il cuore degli “interessi generali”? Per un motivo che viene da lontano, dalla teoria e dalla pratica politica e organizzativa iniziata a metà ‘8oo e proseguita per tutto il secolo seguente: la classe operaia come motore della trasformazione (rivoluzionaria e/o riformista) della società capitalista.
In sintesi: per quelle ragioni ideologiche, che la Camusso ed i suoi (dai sindacalisti fino all’ala ex-Pci del Partito Democratico) non ammetterebbero mai. Ragioni per le quali Renzi li accusa e che intende definitivamente mettere da parte. Sicuramente esagerando nella parole autolesionistiche della “fine del lavoro fisso”, e prestandosi all’interpretazione che lui voglia generalizzare il lavoro precario, piuttosto che intervenire sulla “spontanea” tendenza dell’attuale sistema.
Il sindacato dei lavoratori dipendenti è solo parte della società, questo è il nodo problematico che distingue la sinistra riformista dalla sinistra rivoluzionaria. Anche il sindacato confederale rappresenta interessi di parte, quello dei lavoratori dipendenti, il più variegato possibile, ma sempre in quanto dipendenti.
La Cisl e la Uil si staccarono dalla Cgil nel 1950 fondamentalmente su questa linea di parzialità. Ma, in seguito, anche alla loro dirigenza piacque la politicità del sindacato confederale interpretata quale interesse generale. Esso esaltava al massimo, specie nel lungo tempo della decadenza della politica dei partiti, il ruolo della loro dirigenza. Per quasi quarant’anni un segretario generale viveva il proprio ruolo quasi nel rango di ministro della Repubblica.
Raffaele Bonanni giustifica il suo ultimo stipendio da 336 mila euro come si trattasse di (e considerando se stesso) un alto commis dello stato più che il rappresentante di lavoratori dipendenti e pensionati dallo stipendio minimo. Si difende:
“La mia pensione netta ammonta a 5.122 euro mensili, dopo 47 anni di regolari contributi e frutto del calcolo sugli ultimi dieci anni di versamenti. Questa è l’unica cifra vera. Tutto il resto sono illazioni farneticanti. È certamente una pensione in linea con quella di chi ha ricoperto importanti incarichi nelle varie attività politiche e sindacali, soprattutto dopo 47 anni di contribuzione”.
Si stupisce della nostra meraviglia, lui che, con gli altri “generali”, parlava e decideva con il presidente del Consiglio, sintesi degli interessi generali dello stato, e non con la “parzialità” del singolo ministro.
Analogo discorso, cambiati il contesto e le dimensioni, va fatto per il sindacato confederale in Sardegna, sia per quanto riguarda l’esclusività del rapporto con il presidente della giunta sia per quanto concerne il lignaggio al livello assessoriale. Anche da noi era stato creato quel “cimitero degli elefanti” costituito dal Crel (il sardo Cnel, in abolizione a Roma). Tutto si tiene e tutto si perde, quindi?
Quanto – tantissimo – è successo in Italia negli ultimi dieci giorni è il rivelarsi e l’assestarsi di processi che vengono da lontano. Il sindacato italiano conserva il suo ruolo fondamentale nella difesa degli interessi dei lavoratori e del sistema democratico anche se i suoi sommi dirigenti perderanno quella patina di autorità (che non necessariamente coincide con l’autorevolezza) che è solo un dato transeunte e il probabile elemento di impaccio per nuove definizioni del suo ruolo.
Meno facile sarà al sindacato sardo farsi una ragione della sua debolezza e ridefinirsi rispetto alla specificità “nazionale” della Sardegna. Che è l’unica risorsa per non diventare sempre più “piccolino” e marginale.
Salvatore Cubeddu
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