Ambiente / Sardegna

“Come il pensiero scientifico ci aiuta ad affrontare il ‘trilemma’ energia-ambiente-paesaggio” di Silvano Tagliagambe

Silvano Tagliagambe

Silvano Tagliagambe è uno degli intellettuali più importanti che la Sardegna possa vantare. Filosofo, fisico ed epistemologo, ha sempre cercato di calare nella realtà isolana il frutto dei suoi studi. In questo intervento (scritto espressamente per il blog, e per questo lo ringrazio infinitamente) indaga uno dei temi centrali che riguardano il dibattito sulle rinnovabili in Sardegna, ovvero il rapporto tra l’energia, l’ambiente e il paesaggio.

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Di fronte a problemi “concreti”, come il passaggio dallo stato attuale di fonti di produzione energetica non rinnovabili come petrolio, gas e carbone, a un più efficiente e meno inquinante mix di energie rinnovabili, al fine di raggiungere l’obiettivo di combattere il cambiamento climatico, si sta affermando sempre più la tendenza a postulare l’esigenza di una netta separazione tra politica e cultura, per evitare che il dibattito venga “inquinato” da astrusità filosofiche estranee che causerebbero solo fraintendimenti.

In realtà basta entrare nel merito delle attuali polemiche su questo nodo cruciale per rendersi conto che non solo le cose non stanno così, ma che al contrario solo un riferimento dettagliato e rigoroso ai termini del confronto culturale in gioco può aiutare a comprendere il nocciolo della questione.

Partiamo dalle sentenze (10 marzo 2021 n. 2056; n. 8167 del 23 settembre 2022) con le quali il Consiglio di Stato, tornando sul cosiddetto “trilemma energia – ambiente – beni paesaggistico-culturali”, ha sancito la crescente rilevanza della “materia ambientale”, imperniata sul principio di sostenibilità, e la sua priorità sulla tutela del paesaggio, sostenendo che:

 “l’interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale non ha, nel caso concreto, il peso e l’urgenza per sacrificare interamente l’interesse ambientale indifferibile della transizione ecologica, la quale comporta la trasformazione del sistema produttivo in un modello più sostenibile che renda meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia, la produzione industriale e, in generale, lo stile di vita delle persone”.

In che cosa consiste questa contrapposizione tra tutela dell’ambiente e tutela del paesaggio e la scelta di anteporre la prima alla seconda?

Per comprenderlo bisogna riferirsi alla Convenzione europea del paesaggio, un trattato internazionale promosso dal Consiglio d’Europa, che riunisce 46 paesi europei, firmata a Firenze il 20 ottobre 2000, ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14. Essa impone agli Stati che sono parte della convenzione (art. 5, lett. a), di

riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” e definisce il paesaggio (art 1, lett. a) come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.

Tale nozione è stata quindi tradotta e recepita dall’art. 131, commi 1 e 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004:

“1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.

Sulla base di questa definizione e delle politiche che ne conseguono quando si parla di paesaggio e della sua tutela non ci si può esimere dal riferirsi alle comunità locali e agli organi che le rappresentano quando si tratta di decidere se, come, quando e dove effettuare determinati interventi sul territorio, a maggior ragione se capillari e invasivi.

Il Consiglio di Stato tende, non a caso, a mettere in secondo piano questo aspetto. Lo dimostra un articolo di Paolo Carpentieri, consigliere di Stato dal 2014, dal titolo “Relazioni e conflitti tra ambiente e paesaggio” nel quale viene scritto esplicitamente che “il paesaggio nasce e vive – pressoché esclusivamente – nell’ambito delle scienze umane e mantiene (nonostante il materialismo storicistico e l’antropo-sociologismo dominanti nella seconda metà del Novecento) un nucleo essenziale estetico.

L’ambiente, invece, nasce e vive pressoché esclusivamente nell’ambito delle scienze esatte e della tecnica. Il paesaggio esprime un profilo qualitativo, mentre l’ambiente esprime un punto di vista soprattutto quantitativo”.

Oltre a riproporre un’ormai antistorica e superata dicotomia netta tra scienze umane e scienze esatte, già discussa e criticata dal fisico Charles Percy Snow nel suo saggio del 1963 “The two cultures and a second look”, qui si assume come elemento non solo caratterizzante ma fondante della nozione di paesaggio il sentimento estetico, che invece la Convenzione europea non solo non considera, ma esclude esplicitamente, stabilendo l’esigenza di considerare tutti i paesaggi indipendentemente da prestabiliti canoni di bellezza o originalità, per cui, secondo il suo approccio, “il paesaggio concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana sia i paesaggi degradati”. Non a caso vengono citati ed inclusi espressamente:

…paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati”.

Operando questo spostamento del baricentro delle definizione e dell’attenzione per quanto riguarda il paesaggio e la sua tutela ciò che si fa è cancellare il riferimento, che 46 paesi europei, giova ribadirlo, hanno considerato fondamentale e imprescindibile al paesaggio come qualcosa che ha a che vedere con qualcosa che avviene in noi come soggetti e come momenti di una dimensione collettiva storicamente determinata, con conseguente obliterazione della centralità del diritto delle popolazioni di un territorio e delle loro rappresentanze istituzionali a dire la loro, nel caso dell’energia ad esempio, su quanta produrla, dove e come.

Per quanto riguarda l’ambiente il punto di partenza scelto da Carpentieri per parlarne è, in primo luogo, il famoso rapporto sui limiti dello sviluppo redatto dal Club di Roma (fondato nell’aprile del 1968 dall’imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali), commissionato dal Club di Roma al MIT e  pubblicato nel 1972 a cura di Donella Meadows e in seconda istanza (in ordine cronologico, e non d’importanza) il rapporto Brundtland, presentato nel 1987, che introdusse il concetto di “sviluppo sostenibile”, divenuto l’architrave del pensiero ambientalista scientifico. La conclusione che viene tratta da questa scelta è che:

La tutela dell’ambiente può essere gestita dagli scienziati che, rilevando e interpretando i risultati delle analisi, individuano le misure da adottare per eliminare le disfunzioni. Esistono degli incaricati di misurare i parametri ambientali dell’acqua, del suolo, dell’aria, nonché di elaborare strategie per mantenersi all’interno di essi. Il territorio è ripartito tra questi enti per l’acqua e il terreno che sono monitorati da scienziati specializzati. Dunque la tutela dell’ambiente è l’obiettivo delle moderne scienze ingegneristiche e naturali”.

Un’idea “scientista e globalista” che appare datata e obsoleta, superata proprio dagli sviluppi delle scienze della natura alle quali l’autore fa riferimento. In particolare l’analisi proposta non tiene conto del fatto che anche l’ambiente è un prodotto dell’evoluzione, come evidenziato da Konrad Lorenz già nel 1973 nel suo fondamentale saggio “Die Rückseite des Spiegels. Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennnens“, tradotto in italiano solo nel 1991 da Adelphi con il titolo „L’altra faccia dello specchio“. Titolo già di per sé emblematico e significativo, che evidenzia come la relazione tra l’uomo e l’ambiente sia di natura speculare, simile a quella che sussiste tra un corpo e il suo riflesso. Ogni nicchia coevolutiva umana è anche una nicchia culturale, per cui non si tratta solo di una descrizione biologica, ma di quella che Laland, Odling-Smee e Fekdman chiamano una “prospettiva eco-cognitiva”.

Insomma, anche nel caso dell’ambiente è ormai sempre più insostenibile evitare di fare riferimento a sistemi cognitivi, il che comporta l’esigenza di tener conto, ancora una volta, degli organismi viventi che interagiscono con l’ambiente e delle loro esigenze. Occorre, a questo proposito, ricordare che la situazione della biologia contemporanea non è esattamente quella dei tempi di Darwin, per cui c’è una correzione da apportare alla teoria evolutiva. A introdurre il primo e più generale principio di questa correzione è Lewontin, secondo il quale

“come non può esistere un organismo senza un ambiente, così non può esistere un ambiente senza un organismo. Si fa confusione tra l’affermazione corretta che esiste un mondo fisico al di fuori di un organismo che continuerebbe a esistere in assenza della specie e l’affermazione errata che gli ambienti esistono senza le specie” (R. Lewontin, “The triple helix: Gene, Organism, and Environment”, Harvard Un. Press, Cambridge, London 2000, p. 48.).

Questa definizione di ambiente comporta il passaggio dalla concezione scientista e globalista alla quale si riferisce ancora Cancellieri, a un concetto di tipo “glocale”, nel quale l’attenzione si sposta sempre più su un’idea di territorio non più omogeneo e indifferenziato, bensì espressione e momento  di accumulazione e diffusione di intelligenza e creatività collettiva locale.

A questo proposito va evidenziato anche un altro aspetto, la relazione tra conoscenza esplicita e implicita (o tacita). Oggi si parla sempre più, non a caso, di “territorio intelligente”, che è anche, ed è sempre più, cognizione, conoscenza incarnata che ingloba e assimila di continuo germi ed embrioni di saperi, alcuni dei quali sono talmente radicati nel contesto dal quale emergono da costituirne una forma specifica di consapevolezza e di riflessione tacita, implicita, che non può essere compiutamente esplicitata, formalizzata e trasportata altrove.

Per questo ogni territorio esprime, accanto alle forme di intelligenza condivise, che danno luogo alle fruttuose analisi riguardanti l’intelligenza collettiva o quella connettiva, anche un’intelligenza sua propria, che lo contraddistingue e ne fa qualcosa di unico, che va preso in esame, soppesato e valutato sulla base della qualità del suo livello conoscitivo intrinseco e incorporato, che ne costituisce il carattere competitivo.

Il paradigma della modernità si basava su un processo di trasformazione della conoscenza tacita (naturalmente situata) in conoscenza esplicita (potenzialmente universale). È evidente che tale trasformazione ha connotato tutta la storia dell’industria, dalla fabbrica di spilli di Adam Smith all’organizzazione scientifica di Frederick Taylor, dalla catena di montaggio di Henry Ford agli attuali sistemi computerizzati di automazione e integrazione dei processi.

Tuttavia, la conoscenza esplicita si alimenta attingendo alla conoscenza tacita, che costituisce dietro di essa l’immensa riserva di vita dell’uomo. Tutte le volte che si è pensato che la conversione in conoscenza esplicita potesse essere totale e risolutiva, come nel caso dei “sistemi esperti”, si è andati incontro a fallimenti e cocenti delusioni La consapevolezza dell’importanza della conoscenza tacita e la sua valorizzazione rappresentano la priorità per attraversare la transizione e aprire una nuova, vasta frontiera per le società umane. Su questo crinale si giocherà anche il ruolo dei Large Language Model alla base dell’Intelligenza Artificiale.

La conoscenza tacita è la riserva di conoscenza fondamentale per i processi cognitivi e vitali: pensare di farne a meno comporta il decadimento e la morte del sistema. La vita si basa su un processo cognitivo situato, ambiguo, e sempre incompleto.

La transizione della nostra società verso un nuovo modello valoriale è sintetizzabile proprio nella progressiva dissolvenza delle categorie separate con cui il paradigma della modernità si era strutturato. Ecco perché non risulta accettabile e al passo con i risultati della ricerca scientifica neppure l’ultima differenza profonda di approccio che, secondo Carpentieri, caratterizza la distinzione tra ambiente e paesaggio, ovvero l’idea che “l’ambiente pensa globale e agisce locale; il paesaggio pensa locale e agisce localmente, legato alla dimensione territoriale. Tutti i paesaggi, per essere tali, sono locali, anche quelli “identitari”.

Un paesaggio “globale” è una contraddizione in termini. Non esistono paesaggi “globali”. I paesaggi “globali” sono i “non luoghi” di Marc Augé (ovvero, non sono paesaggi, ma luoghi anonimi e privi di significato). Il fatto è però che, come si è detto, anche l’ambiente implica il riferimento imprescindibile a una componente locale senza la quale il nostro mondo sembra capace di produrre solo luoghi anonimi, senza alcuna identità per una massa sempre più omologata e indistinta: i non luoghi, appunto.

La nuova globalizzazione tende a capovolgere queste dinamiche, tenendo conto del fatto che oggi siamo sempre più di fronte a insiemi di territorio, ambiente e paesaggi che, con il digitale e le nuove tecnologie, possono diventare fluidi, mobili, non necessariamente predefiniti, potenzialmente metamorfici, incubatori di intelligenze e creatività collettive tra loro connesse e interoperabili.

Non a caso oggi si comincia a parlare di metadominio, il quale, come scrive Paolo Zanenga, costituisce “un campo continuo di relazioni in cui si svolgono processi cognitivi e avvengono trasformazioni”. La rappresentazione del dominio di un organismo complesso non può che avvenire a livello del metadominio delle sue descrizioni, perché, come ha scritto Maturana, “tutto ciò che può essere detto è detto da un osservatore”.

Ogni caratterizzazione di un dominio è una descrizione fatta da un osservatore che come tale appartiene anche al suo dominio descrittivo. Il metadominio è dunque un campo che si dispiega (unfolding) nelle storie dei suoi attori – osservatori sul piano epistemico, portatori di relazioni sul piano sociale, portatori di valori sul piano etico, portatori di interessi sul piano economico, che a loro volta lo introflettono (enfolding) – attraverso processi di incorporazione e/o di co-creazione – nelle loro specifiche morfologie, capacità di risonanza e di crescita. È un processo di co- evoluzione che risponde più a un concetto topologico che statistico (quindi più qualitativo che quantitativo): il metadominio è un sistema-organismo in cui il tutto si rispecchia nella singola parte, ma i cui fenomeni non sono riducibili a fenomeni di sue componenti”.

Alla luce di quanto è stato detto compito delle scienze giuridiche dovrebbe essere quello di prendere in seria considerazione gli sviluppi della ricerca scientifica riguardante i concetti di paesaggio e di ambiente per cercare di affrontare adeguatamente il nodo cruciale della loro relazione, anziché assumerlo come scontato e cristallizzarlo, dando luogo a conflitti di competenza difficili poi da districare e risolvere, come quelli che stanno infuocando il dibattito qui in Sardegna.

Ed ecco perché le questioni al centro di questo dibattito possono essere adeguatamente affrontate solo da una politica che, a sua volta, sappia tenere adeguatamente conto di questi sviluppi e dei risultati a cui sta approdando il pensiero scientifico in tutte le sue articolazioni ed espressioni, senza alcuna linea di demarcazione assoluta e dogmatica tra scienze esatte e scienze umane, filosofia compresa.

Silvano Tagliagambe


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5 Comments

  1. Piero Atzori says:

    Solo che qui non si tratta di un trilemma, ma di un esalemma. Il quarto lemma è la specialità della Sardegna, il quinto è la speculazione energetica ai danni della Sardegna. Il sesto lemma è l’ambientalismo funzionale alla speculazione energetica.

    • Gabriele says:

      La specialità della Sardegna non la esenta dal rispettare gli obblighi comunitari e internazionali dello Stato in materia di decarbonizzazione e di diffusione delle energie rinnovabili

  2. Amadeo says:

    Come scrive Roberto Schirru sulla Nuova Sardegna: “Da noi la narrazione sull’eolico è distorta. Si parla di assalto, di speculazione. È come se ci fosse un concorso per mille posti disponibili e si presentassero 20.000 candidati. E a un certo punto i media e i comitati raccontassero che questi 20mila saranno tutti assunti. Ma non è così: i posti sono sempre 1.000. Lo stesso vale per le pale eoliche: verranno istallate, che piaccia o no, 150-200 turbine assieme a 5.000 ettari di fotovoltaico (circa lo 0,2 % della superficie dell’isola) entro il 2030. Ma non di più, e solo nelle zone idonee. Non dimentichiamo che in Sardegna la moria sui progetti delle rinnovabili è del 95%.”
    E aĺlora qual’e’ il senso profondo di questa battaglia, se non un atto esclusivamente politico e con bersaglio il governo della regione? Con curiosi strascichi antropologici: si afferma che firmatari e fautori della proposta di legge detta di Pratobello siano sardi-sardi, i restii e dubbiosi sardo-italiani, al soldo dei neo-colonialisti, traditori, ignoranti e incapaci di pronunciare cixiri.

    • Ormai sono passati allo slogan “non esistono zone idonee” che è il reale senso di questa pseudo-battaglia: impedire uno sviluppo industriale ecosostenibile, per garantire le rendite di posizione ai soliti noti. E’ d’altronde storicamente il ruolo della destra. La mancanza di cultura scientifica, la prevalenza del pensiero antiscientifico permette poi ai bugiardi di professione di fare molti proseliti.
      E Pratobello era tutt’altra cosa, una battaglia per difendere sviluppo e lavoro non contro chi porta lavoro e sviluppo.

      • Pietro says:

        Nei comitati anti eolico la destra è praticamente assente. Sono tutti ex candidati di Soru, partiti indipendentisti e di estrema sinistra. La destra si è fatta viva solo ora per cavalcare opportunisticamente il dissenso

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