I
Questa è la testimonianza inviata al blog da un paziente fragile, Gianfranco Cappai di Sinnai. Tutto circostanziato, tutto ben spiegato. Tutto chiaro. A futura memoria.
***
Ormai da una ventina di giorni avevo preso una nuova abitudine. Ho sempre odiato i telefoni cellulari, ne ho uno (antidiluviano, così dicono i miei amici) giusto per poter fare qualche chiamata di emergenza, e per il resto rimane spento da qualche parte. Ma ora le cose erano cambiate: l’accendevo tre volte al giorno per vedere se c’era qualche messaggio per me.
Il tutto era cominciato appunto tre settimane prima, quando mi ero messo in lista per fare il vaccino (non serve ormai specificare, si sa di che cosa parliamo); e già che c’ero avevo prenotato anche mia moglie. La chiamata per lei era arrivata subito, dopo due giorni eravamo a Quartu per farle ricevere la punturina. Per me invece niente; le spiegazioni furono senza mezzi termini: ero classificato “fragile”, quindi sarei stato vaccinato sì, ma con cura, con attenzione, ci voleva una “modalità protetta”. Ci voleva pazienza, mi avrebbero chiamato, che stessi tranquillo.
Un pochino questa faccenda del “fragile” mi aveva scosso, avevo preso a muovermi anche con più cautela, e del resto per incoraggiarmi a misurare il passo ci si era messo anche il ginocchio destro, che si era deciso a farmi sempre più male. “Protrusione del menisco, con cisti e sospetta lesione” specificava la sentenza della ecografia, bell’affare, proprio ora che andare in ospedale a fare un intervento equivaleva a ficcare la mano in un nido di serpentelli, magari in forma di virus esotici. Ma io almeno zoppicando riuscivo comunque a camminare, e prima che fossi riuscito a vaccinarmi col cavolo avrei varcato le soglie di una clinica.
Quindi il vaccino serviva, ma il messaggio non arrivava. Poi finalmente la schiarita: una telefonata persa (“E per forza, quell’accidente di telefonino sempre addosso lo devi portare, e acceso, hai capito?”) ma da un numero sconosciuto. Spuntò la speranza come un porcino di fine settembre, bella soda e tornita. Provai subito a richiamare, più volte: niente da fare, “errore di sistema”, non si andava avanti. Ma io non sbagliavo niente, che errore ed errore! Però la cosa aveva un suo aspetto invitante: se bloccava le richiamate era un numero di qualche società; che fossero “loro”?! Ma stavolta l’accidente me lo tengo in tasca, acceso: e vediamo un po’ se le cose sono come spero.
Dopo mezzora la telefonata finalmente arrivò, ore dieci antimeridiane del Giorno del Signore 5 maggio 2021: chiamata per il “paziente fragile”, per sapere se magari voleva vaccinarsi: “E come no? Anche subito”. Affare fatto, l’aspettiamo alle ore 16.35 (orario al minuto, che precisione!) alla Fiera Campionaria di Cagliari, mi raccomando sia puntuale, e tessera sanitaria a portata di mano.
Parcheggiai vicino alla Fiera con mezzora di anticipo, il giovane con il corpetto mi interpellò subito, mentre cercavo di farmi strada in mezzo a una torma di mascherinati che si protendevano verso l’entrata come gatti intorno alla pappa gattina. “È un po’ prestino – mi fa – comunque si metta in fila con gli altri, chiamiamo in base all’orario”. Dopo cinque minuti ecco la chiamata: ma quale orario e orario, entrano tutti quelli vicino alla porta, nessuno controlla, sulla destra c’è una ragazza che dovrebbe prendere le tessere sanitarie e controllare le convocazioni, ma dà solo una occhiata, la restituisce e a tutti dice la stessa cosa: “Vada al padiglione G”.
E in realtà sullo sfondo c’era un padiglione su cui spiccava una bella G gigante, ma appena ci incamminammo verso quello ci gridarono subito dietro, non era quella, la G per noi, in fondo ce n’era un’altra, dovevamo girare a destra, e lì c’era la G buona. Girare sulla destra a me è sempre venuto male, sarà magari per una questione di pregiudizio, ma quella volta mi venne ancora più male.
Pensavamo di incamminarci radiosi alla meta e invece appena svoltammo ci apparve davanti una specie di fiume umano: cento, forse centocinquanta metri di anime speranzose ammucchiate in una fila sconnessa e disordinata. Ci appiccicammo anche noi e ci accorgemmo che anzi non era neppure una fila, con sorpassi, deviazioni, allargamenti e diversificazioni di traiettoria ogni qualvolta la marea avanzava di qualche metro.
Però in genere rimaneva ferma, e ci si accorgeva che il sole picchiava sempre più forte: c’era chi cercava di proteggersi con un giornale, o con una cartella, ma dopo un po’ la mano si stancava. Ci guardavamo in faccia abbastanza sconcertati e increduli, cominciavamo a scambiarci impressioni e interrogazioni, fra vicini di fila di quel momento (a ogni avanzamento le cose cambiavano, nel fluttuare l’onda umana scambiava le posizioni, ci si smarriva e magari dieci minuti dopo ci si ritrovava).
Ma ormai di dieci minuti in dieci minuti il tempo passava: ci siamo da mezz’ora, ora è quasi un’ora, ma è mai possibile? Ma sarebbe questa la “modalità protetta” per i “pazienti fragili”? Ci scambiavamo le informazioni, c’erano i cardiopatici, i diabetici, gli oncologici, gli emolinfatici, e chi più ne ha più ne metta. Ormai c’eravamo da un’ora e mezza, col sole che picchiava e le gambe che non reggevano più. A qualcuno non reggeva più neanche qualcos’altro, ma i guardiani del gregge erano categorici: i bagni solamente all’interno dei capannoni.
Io ormai non ce la facevo più, il ginocchio pulsava e ogni tanto fletteva, come per dirmi di non fidarmi troppo, ero indeciso se lasciarmi andare a terra o resistere, qualcuno mi avrebbe pure ripescato, alla fine! Però ci sembrava di essere quasi alla meta, c’era una specie di tettoia, quello sarà l’arrivo, finalmente anche un po’ d’ombra, e cercavo di convincermi che era come quando andavo alla sfilata per Sant’Efisio, anche quella non finiva mai, eppure per il santo ci andavamo, e sottovoce me la canticchiavo: “Protettori poderosu de Sardigna speziali, liberanosi de mali, Efis martiri gloriosu”.
Solo che allora avevo quasi mezzo secolo di meno, e un altro ginocchio… Ma bisognava farsi forza, tutti cercavamo di farci forza, bisognava resistere, ci incoraggiavamo a vicenda, in distanza c’era uno spilungone di più di due metri, davanti ben visibile, e misuravamo la distanza in base alle sue spalle, che erano più alte di tutte le teste che gli stavano intorno. C’era persino una signora con un bastone ortopedico che tutta storta cercava di tenersi dritta, doveva arrivare per forza alla tettoia.
A un certo punto, dopo una ondata più forte delle altre, sono capitato a fianco di un giovanotto alto e aitante, e mi chiedevo che cosa ci facesse in mezzo a quelle fragilità; anzi lo chiesi davvero proprio a lui: la madre si era arresa, non ce la faceva più ma lui era rimasto a fare la fila per tenerle il posto, non potevano perdere l’occasione. Incoraggiai il giovane cireneo con simpatia, mentre fluttuava più avanti nella fila.
Perché ormai individuare le posizioni era quasi come identificare la posizione di una goccia d’acqua dentro l’onda, si andava e si veniva, ci si mescolava e avvoltolava con la somma democrazia della materia. Chiedevo a chi era a fianco l’ora della loro convocazione, ma ormai non c’era davvero più né capo né coda, chi era convocato per le 15.30, chi per le 17, e del resto quella era per tutti una preoccupazione ormai secondaria, il problema era fare in modo che reggesse il fisico: ma è mai possibile, ci si chiedeva, che si possa lasciare un cardiopatico o un diabetico anziano in piedi sotto il sole cocente per ore (ormai erano diventate due), ormai solo la speranza di arrivare sotto la tettoia ci tratteneva dal rumoreggiare.
Ma una volta arrivati ecco la delusione, cocente come il sole che ci aveva arroventato: non era quella la meta, il capannone era ancora quasi cento metri più in là. C’era una fila di gente di centro metri ancora, di una fila che non si muoveva ormai più quasi per niente.
“Il capannone è ormai pieno, sino a quando non si svuoterà di quelli che hanno fatto il vaccino non entrerà più nessuno”: un’infermiera corpulenta diede il funebre annuncio. La signora col bastone fece appena in tempo a crollare su una sedia di plastica che stava a fianco della tettoia, io corsi zoppicando a succhiare un po’ di riposo appoggiandomi contro un muro, ma la gamba mi faceva sempre più male: poi arrivò la fortuna, la signora col bastone aveva trovato una sedia più avanti e aveva lasciata libera la prima; nessuno ci si sedeva, mi ci accovacciai a riposare finalmente un poco all’ombra.
Ma ormai si commentava, al fianco mio c’era un tipo della mia età che zoppicava un poco pure lui, anche lui aveva un ginocchio infiammato. “Cardiopatico o diabetico?”: cardiopatico pure lui, ma guarda come ci si ritrova, a questo mondo. Però eravamo tutti ormai disfatti, come le anime dannate di Carondimonio, come i marciatori della morte di bellica memoria.
Una signora magra era tutta curva,talmente curva che pensavo si sarebbe rovesciata da un momento all’altro; no, per fortuna una atletica giovinetta le faceva da appoggio, zitta zitta con solo gli occhi che parlavano. Io invece cominciai a parlare con la bocca dentro la mascherina che pulsava, sfoderando aggettivi come obbrobrioso, stomachevole, indegno, e anche di più, in quel momento rifiorivano le quasi nostalgiche memorie sindacali, che allora sì che si marciava in cortei belli, e tutti andavamo avanti di comune accordo; solo che allora era un’altra cosa.
Ma mi accorgevo che in fondo di accordo ne trovavo pure lì, nessuno parlava ma vedevo assenso nel luccicare degli occhi velati che si intravvedevano sopra le mascherine. E speriamo che funzionino davvero, pensavo,le mascherine, perché sotto la tettoia eravamo tutti ammucchiati cercando l’ombra, altro che distanziamento, ma come si faceva altrimenti? Sta a vedere che siamo venuti per il vaccino e ce ne andiamo con il contagio, che schifo di roba, che vergogna.
Poi il primo colpo di scena: due infermiere a passo svelto passavano a fianco della fila gridando: “Ma fra voi ci sono diabetici di tipo uno?”. Mi chiedevo che accidenti fosse questo “tipo uno”, ma qualcuno aveva inteso.
Un gruppetto di ombre umane uscirono barcollanti fuori dalla fila: “Venite con noi, al padiglione D”. Che succede, ma non è che ci abbiano mandato qui per sbaglio? Nel frattempo il pivot due metri era riuscito in lontananza a imbucarsi dentro il padiglione G. Ma dopo un poco fu risputato fuori, anche lui al padiglione D.
Ormai la cosa si faceva inquietante: cercavano di raccattare dalla fila altri diabetici, adesso qualunque tipo andava bene, anche loro indietro; poi un giovane veloce atletico in giubbotto da volontario si tuffò dentro la fila, chiedeva tessere sanitarie, voleva controllare qualcosa. Poi tornava indietro, restituiva le tessere e via, gli interessati estirpati dalla fila: tutti al padiglione D!
Era veloce ed efficientissimo, prendeva altre tessere, andava e tornava e via, la fila si smagriva, tutti rimbalzati indietro. Ohè, ma che succede, anche io sono fragile, mi faccio avanti, controlli pure la mia tessera, e dopo cinque minuti la sentenza: anche lei è “paziente fragile”, vada al padiglione D, devono andare lì tutti i “pazienti fragili extra”.
Questo “extra” fu la goccia che fece traboccare il vaso, cominciai ad arringare la folla come Renzo Tramaglino appena raccolto il pane al forno delle grucce, che cosa era questa storia, se dovevo andare lì perché mi avevano spedito altrove, a fare una fila in piedi di ore sotto il sole, io non andavo a fare un’altra fila sotto il sole, che trattare la gente in quel modo era così, così e cosà, ripescando tutti gli aggettivi più deprecanti come da repertorio sindacale, attento però a non ripescare quelli che potevano essere fatti passare per dileggiatori (conoscevo da sempre certe pecorelle, che quando si tratta di fare le offese sono pronte ad attaccarsi a tutto).
La cosa faceva effetto, vedevo occhi assentire brillando. Piombarono come aquilotti due addetti per rabbonirmi, “Ma no, ma che fa, stia tranquillo, lì la serviranno subito, non dovrà fare nessuna fila”, e così via. Ma ormai non mi fidavo più, pretesi che uno di loro mi accompagnasse sin lì. Uno di loro mi accompagnò per una cinquantina di metri, ma non ci fu niente da fare: a un certo punto si fermò, puntò il dito, “Vede lì in fondo? Vede quegli alpini? Vada lì”. E se la filò come un leprotto.
Mi trascinai come potevo sino al padiglione D, il ginocchio ormai cantava il miserere. Mi intimarono di mettermi in fila, io ormai ci avevo preso lena con le arringhe, mi avevano detto niente file,quegli altri lì, com’era questa faccenda. Mi apparve come per magia a fianco un tipo vestito in borghese: “Ma lei che cosa pretende, vediamo che posso fare, se lei se ne sta buono e calmo, sa io devo giustificare le mie decisioni…”. Parlava come uno che può, uno che sa, uno che è anche se io non so chi è lui.
Io non stavo buono, invece, niente fila mi avevano detto, e il tipo (ma chi era poi? Non si era qualificato, mi sembrava di essere sempre al forno delle grucce, con il povero Renzo alle prese col corvaccio) un tantino minaccioso, “Guardi che non vorrei essere costretto a chiamare i carabinieri”. Oh bella, mi resi conto in quel momento che dopo tutti quei pasticci che avevano combinato quanto meno era pensabile che si sentissero pronunciare da qualcuno delle scuse, e invece l’unica cosa che veniva fuori era il tentativo di intimidire con velate minacce. “Ma chiami pure i carabinieri, che aspetta? Non vedo l’ora e vediamo che cosa succede, chiami il 113!”. Non chiamò, anzi così come era apparso all’improvviso, altrettanto all’improvviso sparì.
Arrivò allora il deus ex machina, anzi le dee, alcune signore che sulle prime non avevo notato perché erano afflosciate sulle sedie appoggiate alle pareti esterne: le riconobbi, erano anche loro fragili, rimbalzate dalle onde della marea per la loro fragilità: “Lei ha ragione, ma hanno detto anche a noi la stessa cosa, e guardi anche gli altri, erano molti nella nostra fila, che vogliamo fare? Certo, che vogliamo fare ormai? Facciamo un’altra fila, ci devono annotare”.
Gli operatori erano indicati col nome, a me è toccato “Enrico”, buon segno, è il nome del mio primo figlio, chissà che non porti bene. Ma non portava bene, non mi trovava, e allora di nuovo dietro a lui il tipo di prima (allora è davvero uno che conta, magari uno che è responsabile, responsabile anche di tutto quello che ci hanno fatto passare…), mi scrutava, pareva sospettoso e inquisitorio: “Mi hanno telefonato per convocarmi, mi avete cercato voi e io ho solo accettato, ce l’ho la prova”, l’accidente del telefonino stavolta mi tornava buono, conserva memoria delle chiamate… E allora con fare concessivo finalmente il beneplacito, faccio un’altra fila per darci un numero, e poi un’altra, ma almeno finalmente seduti, per aspettare la chiamata del numero.
Ormai sono le sette passate e finalmente sono davanti a un medico: mi è toccato un medico anziano, bene così, spesso quelli capiscono al volo le situazioni. E infatti capì al volo la situazione: quando una voce dall’altoparlante avvisò che i vaccini previsti originariamente per i fragili erano quasi finiti, ne restavano solo quattro, al buon medico forse parve di vedere un lampo di smarrimento nei miei occhi, gli spuntarono le ali da angelo custode e sempre al volo compilò un foglio , me lo fece firmare: “Corra subito dove c’è scritto idonei, faccia svelto, presto!”.
Io non riuscivo a correre, ma in qualche modo arrivai all’uscio, al paradiso vaccinale, ero salvo, la mia era la penultima dose disponibile! Poi ho saputo che comunque anche per gli altri avrebbero procurato un vaccino di altro tipo, “che sono tutti la stessa cosa, in fondo”, diceva una signora in camice bianco. Ma allora come si spiega che non ce lo avevano fatto insieme con gli altri, il vaccino, se era la stessa cosa; forse volevano riservarci un trattamento speciale (me ne veniva in mente uno davvero speciale,di una settantina di anni fa) a noi “fragili”, forse per vedere se alla fine riuscivamo lo stesso a restare interi.
Mi accasciai sulla sedia che mi indicarono in un salone, mi avevano finalmente fatto la puntura, dovevo aspettare un quarto d’ora, avevo gli occhi chiusi e mi sembrava di essere da ore dentro un brutto sogno, di marce forzate e di dolori dappertutto, il ginocchio ormai sembrava in fiamme, e con gli occhi mezzo chiusi sentivo una voce di donna che diceva che la colpa di tutto era che a loro avevano detto che bisognava “fare numeri”, e quindi avevano convocato tutti questi fragili in una volta, e che poi ci si era messa di mezzo anche la televisione dicendo che ci si poteva andar a vaccinare anche senza prenotazione, e quindi era arrivata una fiumana di gente, che non sapevano come fare e lei pensava che tutta quella gente mandata per ore sotto il sole e nel posto sbagliato non era perché c’era stato uno sbaglio per davvero, ma perché se mandavano questi “fragili” tutti nel posto giusto quel padiglione si sarebbe intasato e sarebbe successo un pandemonio.
Quindi meglio dirottarne un bel poco altrove, bene intruppati a cuocere al sole, così non creavano problemi, e in seguito li avrebbero recuperati. Quella voce pure sembrava come in un sogno, ma non era un sogno la faccenda di prima e non era un sogno neanche quella voce: c’era una signora in camice bianco che parlava con un’altra donna e diceva tutte quelle cose. Chissà chi era, però indossava un camice bianco, e chissà se le cose che diceva erano tutte vere. Ma di certo, pensavo, se erano vere allora anche quegli aggettivi che avevo adoperato, pure se erano duri e pesanti, forse non bastavano più.
Ma il quarto d’ora era passato, e in qualche modo riuscii ad arrivare di nuovo al parcheggio, mentre il pensiero già correva al 26 maggio, fine mattina, iniezione di richiamo in quello stesso inferno come c’era scritto nel foglio che mi avevano dato, e pensavo che non credevo che sarei riuscito a sopportare un’altra volta una cosa simile.
Efis Martiri Gloriosu, ricordati che ne ho fatto tante di sfilate per la tua festa, da Stampace sino a via Roma, tutto agghindato in costume come si deve, e una volta ti ho seguito quasi sino a Pula, quindi tienine conto, perché non vorrei che succedesse, come diceva nonna Barbarina, di dover morire più dal rimedio che dal male.
***
Qui finisce il racconto, ma a chi avrà avuto la pazienza di leggerlo voglio ricordare che stavolta, contrariamente a quanto di solito accade e si tiene a precisare, i fatti e i personaggi non sono per niente immaginari. Meditate che questo è successo, queste cose sono accadute tutte quante per davvero, a Cagliari nella Fiera Campionaria, nelle ore fra le 16 e le 19.30 del 5 maggio 2021, allorché centinaia di persone definite “pazienti fragili” furono costrette a sopportare fatiche e sofferenze provocate da chi avrebbe dovuto assicurare loro una “situazione protetta”.
Non ho avuto notizia di alcuna richiesta di scuse da parte di nessuno di coloro che hanno avuto parte in causa e responsabilità di quanto successo, e questo ne accresce il rammarico perché almeno il ravvedimento in qualche modo può consentire di superare la colpa.
In ogni caso queste cose sono state scritte nella speranza di evitare analoga esperienza ad altri malcapitati.
Gianfranco Cappai
Sinnai
Mi meravigliano i pochi commenti. Evidentemente le bacchettate del presidente Solinas distribuite in italiano durante le celebrazioni di Sa Die, hanno sortito il loro effetto domatore. Insomma, Sardi, niente vi va bene, se non si vaccina, male, se si vaccina – non importa come – male.
Se siamo in zona arancione, colpa di chi interpreta male i numeri. Che è lo stesso che ha permesso precedentemente la zona bianca, dalle conseguenze disastrose, chissà in base a quali numeri ‘oggettivi’, forniti da chissà chi.
Intanto i dimissionari della AOU, partecipanti alla festa di Sardara, sono ancora lì; immagino la loro autorevolezza morale dinanzi ai collaboratori in posizione subordinata. Ci si affida al tempo che indebolisce la memoria.
E si discute ancora della legge 107 (staff presidenziale, a nomina diretta) , dai costi milionari. Anche là si fa affidamento sulla stanchezza sociale. Il cd. ‘Fatigue’. In verità si è stufi.
Pazzesco….ancora una volta non riusciamo ad organizzare un semplice appuntamento, non la gestione dello sbarco improvviso di mille persone.
Che cialtroneria…
Dopotutto siamo nel paese di “armatevi e partite”
Non hanno rispetto delle persone anziane…..questo denota la loro nullità e anche la loro malafede….questa é stata la risposta di Solinas e Nieddu per essere stati bacchettati perché non vaccinavano i fragili…chiamarli e tenerli sotto il sole affrontando file interminabili…..quando finirà quest incubo dei vaccini e non solo ……
Tra virus cinese e razzo cinese siamo messi bene! Ma questa è soltanto una battuta.
Leggendo invece il resoconto di Cappai, mi sono venute in mente le scene bibliche delle greggi in transumanza, con la differenza che queste lasciavano e lasciano ancora senza fiato chi le ha viste e studiate. Le scene descritte da Cappai sono invece mortali.
Vito, su segamentu de conca de su “correttore” candu nci dhu fúlias? Tocat a portai otu ogus po mi acatai chi no mi cambit su chi iscriu! (custu mi dh’at iscritu “uscirà”!)
In sa propositzioni «a mimi, de custa classi de edadi, o mi acetàt» cussa “o” est unu “no”: no mi acetàt.
… Arràbiu, arratza de “organizzazione”!!!
Intanti in d-una citadi che a Castedhu (mancu mali chi no est Roma) e pentzai a sa “Fiera Campionaria” coment’e logu (dhu nant cun fuedhu ispeciali, chi no isbàgliu est “Hub” chi però dhu nat “Abb” e bai e cica ita lampu si ponit avatu de s’inglesu, si inglesu est) po fai is vacinus… E… no nc’est mali: sa Fiera Campionaria gi est manna e aintru dhoi logu po curri a pei che in màchina… de unu “padiglione” a s’àteru e sigomenti sa Fiera est própriu una… sa genti podit aproillai che un’arriu mannu in manera… unitaria. Candu si narat “efficienza”!
E a dh’organizai benit de pentzai chi ant postu una cambarada de esperti in disorganizzazione chi at convocau s’arriu de “pazienti fragili” totu po una matessi ora. Assimbillat unu pagu a sa Fiera de Abbasanta, aundi is “pazienti fragili” fiant is brebeis a tallus, crabas e procus, e fintzes bois corrudus (ma custus isceti a dus dus.)
Ma un’àtera cosa puru. Si est a ascurtai su “mundu” de sa “informazione” parit una Babbelónia e chi più ne vuole più ne dica, cun d-unu muntoni de genti a “smart” in manu e uotzapistas fendi “passaparola” si ammancant televisionis e telegiornalis a prus giornalis e arràdius Cun d-una sola cosa segura: no de is vacinus si e candu aundi e comenti ma de sa timoria po tziu corona virus (fintzas chentza cumprendi bèni a ita serbit sa “mascherina” ca no seus in carnevali e si podit biri puru genti chi si est a sola, in màchina o a pei sa mascherina ge si dha ponit, ma si atóbiat a calincunu, o a prus de unu, chi connoscit intzandus si ndi dha calat po fuedhai. Pero gei timit a tziu corona mancai no dhu biat istrantaxu o sétziu acanta! E intzandus… est prus possíbbili chi una cambarada de esperti tontus apat convocau s’arriu totu a sa matessi ora o est fintzas possíbbili chi genti preoccupada siat aproillada totu a su matessi logu sa matessi dí a sa matessi ora, mancai in antícipu meda fintzas timendi ca is vacinus… nci funt e no nci funt, dhus tenint e no ndi tenint, e a vacinai parit prus a gherrígius e a istrumpas, acotzus e furbidadi o aprofitamentu a… si salvi chi può?
De seguru dhui at unu muntoni de distintzionis de ponni in contu e fait a si nci perdi fintzes cun is ainas tecnológicas (malepeus si dhoi agiungint i “desiderata” de chini… podit ca tenit poderi!)
Personalmenti, est giai mancai unu mesi chi prova a mi prenotai in su “portale” de sa RAS, indiritzu “vaccinocovid.sardegnasalute.it” aundi iscrínt «l’adesione è riservata […omissis] ai cittadini nati dal 1942 al 1960 che non rientrano nella categoria di “elevata fragilità” , il cui nominativo verrà progressivamente inserito in questo portale» e candu sa classi de edadi fut 1942-1946 si fut prenotada mulleri mia – ma no dh’ant ancora convocata – e a mimi, de custa classi de edadi, o mi acetàt e mi arrispundiat chi tenia una “esenzione” (apu pentzau po unu carcinoma de su 2009) e no mi acetat mai mancu immoi de candu su límiti est cussu chi apu iscritu – e mi arresurtat de èssi de «non “elevata fragilità» ma mi arrispundit sempri ca «il Codice fiscale inserito non ci risulta fra le categorie interessate dalla campagna vaccinale».
Beh… tutto sommato, ispereus de morri a su própriu, cun vacinu o chentza vacinu!
Però, balla, a fai s’isperiéntzia de G. Cappai gi est unu segamentu mannu etotu!