Oggi vi sono alcune parole ricorrenti e interconnesse. Si ripetono soprattutto nella narrazione pubblica ma anche privata: distanziamento, anziani, solidarietà, guerra. Si dice che siamo in guerra contro un nemico invisibile che, nel qui ed ora, possiamo tenere sotto (parziale) controllo solo mantenendo una certa distanza (almeno un metro) dalle altre persone (tutti coloro che non vivono nella nostra stessa casa, se non già contagiati). Il che significa che occorre evitare qualsiasi tipo di contatto (strette di mano, abbracci ecc.) con gli altri da noi, da un lato e limitare anche i “rapporti” con noi stessi (niente dita in bocca, nel naso o negli occhi), dall’altro. Il tatto, quel senso che mette la superficie del nostro organismo in contatto col mondo permettendoci di riconoscerne i caratteri fisici nelle diverse declinazioni (dalla durezza alla forma), viene precluso.
In questi appunti non si vuole discutere l’importanza della politica del distanziamento, oggi indispensabile al fine di arginare la diffusione dello specifico Coronavirus (il Covid-19) che ha messo in crisi il mondo intero e i suoi stili di vita prevalenti. Di seguito solo poche note per evidenziare alcune conseguenze di carattere relazionale, in particolare sulle persone anziane; per poi tentare di comporre da quanto accade l’invito a un’ipotesi di intervento.
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A tal fine è importante chiarire meglio che cosa implica il distanziamento in termini socio-antropologici. Innanzi tutto va detto che il distanziamento incide sui vari sistemi della comunicazione non verbale (paralinguistico, cinesico, prossemico e aptico). Entrando nello specifico si rileva che questo influenza meno quello paralinguistico, relativo all’intonazione e all’inflessione della voce che accompagna i nostri modi di parlare; conseguenze un po’ più gravi si hanno sull’aspetto cinesico, che coinvolge l’insieme dei gesti volontari e modulati dalle emozioni e comprendenti in via prioritaria le espressioni del volto e l’articolarsi dello sguardo (perplessità, timore, colpa, ecc.).
Maggiore è poi l’effetto del distanziamento sugli ultimi due sistemi. Nella prossemica, che interessa la gestione degli spazi tra gli interlocutori, si ha un’alterazione evidente della gestione dei propri movimenti di immediata prossimità. Le neuroscienze insegnano che ognuno di noi ha dei propri spazi di sensibilità (di propria giurisdizione), sensibili alla presenza fisica ravvicinata altrui e che variano a seconda del livello di confidenza ed affetto con l’interlocutore. In questo quadro vi sono gesti di contatto consuetudinari che assumono forme culturalmente determinate.
Il bacio su entrambe le guance, ad esempio, è molto diffuso in Italia (in altre culture lo si dà su una sola guancia, in altre ancora ci si tocca coi rispettivi nasi, ecc.); si tratta però, sempre, di un avvicinamento con contatto, quindi a metà strada tra la prossemica e l’aptica e rappresenta un modo per indicare condivisione e amicizia. L’eliminarlo compromette il calore del rapporto interpersonale che tanta parte ha nelle nostre vite (produzione del senso di sé, sicurezze e/o insicurezze, ecc.).
Ancora più pesanti sono le ripercussioni provocate dal distanziamento sul sistema aptico, il cui ruolo è oggi rivalutato anche dalle neuroscienze e, tra l’altro, da un ampio settore dell’arte contemporanea, perché coinvolge importanti funzioni legate al nostro corpo. Il sistema aptico indica, infatti, il processo di riconoscimento degli oggetti attraverso il tatto ed è il frutto della combinazione tra la percezione tattile prodotta dagli oggetti sulla superficie della nostra pelle e dalla propriocezione che coinvolge quei recettori del nostro organismo (i propriocettori) che ci forniscono informazioni sulla posizione, il movimento e l’equilibrio del nostro corpo appunto.
Nel caso specifico della comunicazione non verbale che si serve del sistema aptico, la propriocezione interessa la posizione della mano rispetto all’oggetto/o persona con cui ci si rapporta o comunica. L’universalità della stretta di mano ad esempio e delle infinite sfumature che può avere rende merito a questa “abitudine” culturale che coinvolge appieno il sistema aptico.
A riguardo è interessante notare gli aspetti simbolici e coreografici che questo gesto ha assunto nel tempo. In greco antico si indicava con la parola “dexiosis”, darsi la mano destra, probabilmente per un’iniziale diffidenza, dato che in questo modo non si poteva impugnare la spada o un’altra arma, poi diventato simbolicamente un “non ho cattive intenzioni”. Inoltre vi è qualche studioso che afferma che l’handshake, l’agitare e il muovere su e giù la mano mentre se ne stringe un’altra potrebbe essere stato un modo per assicurarsi che l’interlocutore non nascondesse niente di offensivo nella manica, mentre successivamente ha assunto una valenza di forte intesa, come un “sono veramente felice di vederti”.
National Geographic informa che la prima testimonianza di stretta di mano, da noi conosciuta, risale a un bassorilievo del nono secolo a. C. in cui a darsi la mano sono un re assiro e un comandante babilonese, probabilmente in segno di alleanza. Col tempo la stretta di mano è diventata sempre più simbolo di mutualità, accordo, alleanza, amicizia. Variante contemporanea è il “dammi il cinque”, in uso soprattutto tra gli sportivi e i giovani. La si fa risalire a una casualità avvenuta negli Stati Uniti durante una partita di baseball: Glenn Burke dei Los Angeles Dodgers, il 2 ottobre del 1977, durante un incontro con gli Houston Astros, ebbe l’idea di alzare il braccio destro col palmo della mano rivolto verso il compagno di squadra Dustin Baker che, dopo aver fatto un fuoricampo ed aver girato le basi, si avviava in panchina. E Baker rispose a quel gesto colpendo quella mano col palmo della sua, oggi si direbbe “dandogli il cinque”. Da quel giorno quel gesto fu il segno distintivo dei giocatori del Los Angeles Dodgers per complimentarsi tra loro. In seguito Baker spiegò che, vista quella mano alzata e non sapendo che fare, istintivamente la schiaffeggiò.
In Italia il “dammi il cinque” si diffuse a macchia d’olio soprattutto grazie a “Gimme Five”, uno dei primi successi di Jovanotti del 1988 (contenuta nell’album “Jovanotti for President”). Una casualità, si è detto, che ha però incrociato un’esigenza di condivisione dell’entusiasmo, divenendone un’espressione caratteristica.
Al di là delle origini storico-antropologiche e di costume, importanti per capire meglio il radicamento nella nostra vita della stretta di mano e delle sue varianti, forse non tutti sanno che un simile gesto, che mette a contatto dita e palmo di una mano con un’altra, impegna addirittura un terzo della nostra regione cerebrale, incluse l’area motoria e sensoriale. Con le dita svolgiamo, infatti, una enorme molteplicità di compiti, che attivano ampie aree del cervello in un feedback continuo. Non è un caso, ad esempio, che diversi psichiatri raccomandino ai pazienti, per superare il senso di angoscia del risveglio, di lavare i piatti e di farlo con le mani, esercizio che implica una serie di complicate operazioni (insaponatura, tenuta del piatto scivoloso, suo corretto posizionamento e movimentazione, risciacquo, asciugatura ecc. ecc.) che, appunto, interessano il tatto delle dita in una molteplicità di funzioni coinvolgendo in tal modo diverse aree cerebrali, così come capita nella classica stretta di mano, anche se non ce ne accorgiamo.
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Torniamo ora agli anziani. Presumo che molti abbiano provato che cosa può significare il parlare con una persona, il toccarla o sfiorarla per sottolineare alcune parti del discorso, poi spostarsi leggermente per guardarla negli occhi, sorridere o fare una smorfia, riprendere il discorso allontanandosi di un passo, per poi riavvicinarsi a sottolineare un concetto e quasi toccarla… Immagino anche che tutti noi si sia provato il calore, il senso di comprensione provocato da un abbraccio, una carezza, uno sguardo ammiccante e comprensivo; si sia sentito il sentimento di vicinanza affettiva prodotto da una prossimità fisica, dal percepire un ascolto interessato da parte dell’interlocutore; ci si sia sentiti protetti in un’affabile comunanza e intesa prodotta da una stretta di mano, solo per fare alcuni degli infiniti esempi possibili.
Tutto questo impasto di sensibilità e di calde contaminazioni con la tangibile prossimità dell’altro da noi, negli anziani è ancora più forte e intenso. Malinconico, a volte, proprio perché nella maggior parte dei casi il loro mondo relazionale si è impoverito (pensionamento, morte di un coniuge o delle amiche o amici più cari, lontananza dei parenti, difficoltà di deambulazione, maggiore isolamento insomma).
Un contesto in cui l’arricchimento del proprio spazio di prossimità con un abbraccio, una stretta di mano o una maggiore vicinanza diventa più che mai prezioso, come acqua fresca per un assetato. Ma oggi, purtroppo, scelte storiche inique e predatorie verso l’ambiente da parte di quella potente componente dei sapiens votata al profitto e cultrice di un modello di sviluppo basato sul dominio della natura e quindi dell’essere umano in quanto esso stesso natura, hanno compromesso questo sistema di relazioni e poste le basi – come spiegheremo – della pandemia che stiamo vivendo.
E così quell’impasto virtuoso di sensibilità a cui si è accennato, viene precluso a tutti per la necessità impellente di evitare il contagio dato che il virus si trasmette nell’aria soprattutto attraverso le microparticelle che produciamo con un colpo di tosse, uno starnuto o, a distanza ancora più ravvicinata, col nostro parlare e il nostro respiro.
Sappiamo poi che, nonostante l’impegno della ricerca scientifica, i tempi di uscita dall’attuale crisi non saranno brevi perché l’elaborazione e produzione di un vaccino specifico (che pur ci sarà) richiede diverse validazioni, pena la creazione di un qualcosa di inadatto e pericoloso; e poi altri tempi organizzativi saranno necessari per una vaccinazione di massa che, sia per il qui ed ora che in prospettiva, obbligherà a una riorganizzazione sanitaria territoriale, constatato anche che l‘Italia ha negli ultimi anni privilegiato le grosse strutture ospedaliere.
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Intanto, approfittando del panico prodotto dal virus, riesplodono fake-news di ogni tipo, come la teoria del complotto, sempre presente perché facile e semplificatrice di una realtà ben più complessa. In questa messa ai margini del pensiero critico si inserisce anche un pericolo, forse più insidioso perché meno evidente, che può essere definito di inquinamento linguistico. In questo quadro va sottolineato l’uso continuo del termine guerra per parlare del nostro duro confronto col virus e delle modalità per arginarlo. “Insidioso”, si è detto, in quanto il ripetere continuamente una parola conduce, spesso inconsapevolmente, a considerare reale il significato semantico e pragmatico che si porta dietro.
In questo caso guerra, essere in guerra, implica avere un nemico fisico contro cui scagliarsi con la forza delle parole o degli atti (la Cina prima, i pipistrelli e altri animali poi, e anche l’OMS). La comunità scientifica internazionale, i virologhi e chi studia i fenomeni ambientali (da Ilaria Capua a Mario Tozzi), concordano nell’affermare che sono i pesanti insulti inferti all’ambiente i veri responsabili, come la pratica insistente delle deforestazioni ad esempio, di cui poco si parla, mentre autorevoli studi scientifici (su Scienze e Nature) sottolineano che, togliendo l’habitat naturale agli animali, li si mette sotto stress e si aumenta la loro carica virale agevolando così il salto di specie, proprio come è capitato per il Covid-19 e, in precedenza, per gli altri virus causa delle diverse e recenti epidemie.
E sempre all’ottusità di uno sviluppo iniquo e distorto si deve l‘impetuoso aumento degli allevamenti intensivi nella pianura padana (bovino e soprattutto suino), con conseguente immissione (tramite le loro deiezioni) di ammoniaca nell’atmosfera e forte incremento del particolato nell’aria. Situazione inquietante se si considera che in quella parte d’Italia c’è stato il maggior numero di contagi e che ricerche dell’università di Harward, ma anche di Shanghai e Pechino (come sottolineato da un ottimo servizio di Report) hanno messo in collegamento la maggiore diffusione del virus all’incremento del particolato che funzionerebbe come suo vettore.
Le cause della diffusione della pandemia richiedono quindi maggiore consapevolezza, in tutti i sensi, anche linguistica e la parola guerra è per lo più inadatta, se non forse nella similitudine di coloro che muoiono, i più deboli. Ma l’attuale pandemia ha un campo di battaglia completamente diverso e relativo alle modalità di contagio del virus, costituito da due elementi fondamentali: i rapporti interpersonali (da cui il distanziamento) e il nostro organismo che questo virus non conosce e che, proprio per questo, subisce anche violentemente, tanto più quanto la clessidra del tempo ha reso il nostro corpo più fragile e più esposto. Da qui, la necessità di mantenere il distanziamento, appunto, per il bene di tutti, ma soprattutto come atto di solidarietà verso la nostra memoria di esistenza e di atti vivente, quella incarnata dagli anziani.
La genetista Ilaria Capua ha definito il Covid-19, un virus anche opportunista che approfitta del “lavoro” fatto da terzi (il tempo, altre patologie preesistenti e/o situazioni di vita precarie) per metterci al tappeto. Ma la guerra, come quella testimoniata ad esempio dai bombardamenti che distrussero gran parte di Cagliari nel 1943 è un’altra cosa. Oggi siamo nel mondo della pandemia, non della guerra, parola da guardare con diffidenza, sebbene anche spontanea nei momenti di grandi difficoltà ma la cui reiterazione permette di giustificare pericolosi interventi autoritari che vedono la dialettica democratica come fastidioso orpello; come avvenuto in Ungheria dove Orban si è fatto dare i pieni poteri dal Parlamento, o violenti proclami come nelle Filippine dove il presidente Duterte ha ordinato alla polizia di sparare a chi viola la quarantena.
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Distanziamento dei corpi per solidarietà, si è detto, per evitare il contagio dei più fragili. Quasi un ossimoro perché nel e dal corpo, proprio per il significato intensamente corporeo della comunicazione non verbale, ha radici la solidarietà e tutto quel che ne segue in termini di comunione e condivisione. Ci son voluti millenni acché l’essere umano, come afferma l’economista Luigino Bruni, “apprendesse l’arte delle distanze brevi per pensare di poterle dimenticare in pochi mesi” ed anche le neuroscienze supportano questa esigenza di distanze ravvicinate in quanto “cablata” nel nostro organismo nelle varie necessità di rapporto comunitario.
Il senso fisico della solidarietà, proprio perché precognitivo non si dimentica e, anzi, fertilizza, seppure con sofferenza, anche nel distanziamento sotto forma di desiderio. In questa delicata fase aiuta anche la storia della parola solidarietà che deriva dal latino, solidum, moneta, e dall’espressione del diritto romano insolidum obligari, obbligazione in solido, per cui diversi debitori si impegnano a pagare gli uni per gli altri e ognuno per tutti un qualcosa preso a prestito o dovuto. E così, e non solo per metafora, si può dire che questo anomalo distanziamento solidale è un modo per rendere ai nostri vecchi una pur simbolica parte del nostro debito nei loro confronti.
In solidum obligari, quindi, come premessa per abbracciare il significato moderno di solidarietà come fratellanza universale, sorto in Francia tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento e rafforzato poi come “legame di ciascuno con tutti” dai padri fondatori della sociologia Auguste Comte ed Emile Durkheim.
In questo quadro di rispetto e maggiore consapevolezza del debito verso i più anziani nasce la necessità di ipotizzare scenari di riflessione più o meno nuovi, ma recentemente trascurati, sul loro ruolo storico e sociale. Occorre, in pratica, ripristinare o tentare di creare ex novo un senso di presenza, che punti al loro, degli anziani e soprattutto dei più anziani, opportuno recupero tramite la raccolta e valorizzazione della loro memoria di vita vissuta, che implica, di conseguenza, la considerazione e della loro presenza fisica come valore; da osservare, dal latino ob-servare (ob, avanti, sopra, attorno; e servare, custodire, salvare), guardare, quindi, diligentemente: sia con gli occhi fisici che della mente.
Un atteggiamento, quest’ultimo, che implica una nuova strategia dello sguardo, ovvero un progetto da predisporre subito e, possibilmente, iniziare nella seconda fase della pandemia, quella del rientro, pur lento e graduale, in un paesaggio di ripresa dei rapporti sociali.
La solitaria morte dei più vecchi e fragili resterà un peso nella coscienza collettiva. Quanto capitato ha spalancato con rabbia quello che, purtroppo, già si sapeva, ma che vedeva i più nascondere il viso dall’altra parte, l’abbandono in cui i più vecchi e deboli vengono spesso lasciati. Un oblio fisico e relazionale che una fredda e macabra idea della produttività tende a giustificare da parte di quei sapiens a cui si è accennato in precedenza. Riprovevole non solo da un punto di vista etico, ma anche sociale ed economico.
Ha ragione Papa Francesco nel denunciare aspramente questo sistema produttivo che incrementa la pratica dello scarto dei prodotti e degli esseri umani. Da tempo, però, anche tra gli economisti si ha contezza che sono il know how e i saperi tutti la ricchezza di base da cui si può crescere, seppure non più come viaggiatori di un illusorio e lineare progresso, bensì come esploratori di un labirinto ricco di traguardi e di sconfitte, ma proprio per questo intrigante perché spinge e costringe a negoziazioni mai concluse.
La memoria dei singoli è un patrimonio non solo per la salute dei diretti interessati perché il ricordo riattiva mondi personali, ma anche per la collettività. Lo dimostrano i tanti frutti dell’evoluzione della metodologia degli studi storico-antropologici, dalla rivista degli Annales in poi, che hanno inglobato e valorizzato pure le piccole storie come importanti “spie” dei tempi in cui si vive.
Ogni anziano è un archivio di saperi e sensibilità, sedimentati nel suo vissuto, che vanno dal lavoro alle sue relazioni, ai rapporti familiari, sino all’incespicare degli aneddoti faticosamente ricordati. Ora si tratta di non disperdere questo patrimonio e, come accennato, di valorizzarlo. Quindi occorrerà impostare un lavoro certamente non facile ma possibile, che sposi ricerca storica, sociologica, antropologica e, indirettamente, sanitaria; che delimiti il proprio target in base all’età e che pensi soprattutto ai giovani come i maieutici di questa memoria.
In questo modo si potrebbe innanzi tutto far ridiventare gli anziani protagonisti, stimolandoli a ricordare e raccontare con qualcuno che raccogliendo osservi loro e i loro ricordi. Con presenza possibilmente fisica, anche fisica distanziata (o virtuale, per alcuni in una prima fase), ma sempre con un qualcuno che interloquisca con loro e ponga attenzione alle loro parole, le stimoli, le accolga e le raccolga. Il tutto fatto con metodologie apposite, ovviamente, che tengano conto della sensibilità degli interlocutori, con l’obiettivo di creare spicchi di testimonianza/conoscenza su costume, abitudini e vita di ampi settori della popolazione.
Si tratta di un progetto di difficile realizzazione nel qui ed ora, ma non impossibile, anche in tempi non lontani se visto in modo graduale. Per questo occorre iniziare a prefigurare un progetto (di cui queste brevi note sono solo una proposta) che, oltre al coinvolgimento dei diretti interessati, preveda un’altra serie di figure, giovani in primis, e di professionalità (dall’università alla scuola) e uno studio di fattibilità.
Roberto Paracchini
L’articolo è interessante, frutto di studio attento e di sensibilità.
Suggerirei una seconda possibile conclusione, partendo da un proverbio antico: su becciu non sentiada ca moriada cantu ca imparu olliada, ovvero il vecchio non era rattristato per l’avvicinarsi della morte quanto per il fatto che voleva ancora imparare. Dico anche che da noi i vecchi non sono mai stati considerati alla stregua dei Tesori viventi del Giappone, oggetto di assoluto rispetto e attenzione. Sono poche figure notevolissime, ma noi non dedichiamo tanta venerazione neanche ai premi Nobel.
I vecchi, dal canto loro, capiscono che il mondo va avanti, è andato avanti,e le loro esperienze, che pure sono state utili alla collettività del loro tempo, ora non sono interessanti per molti.
I vecchi spesso hanno un corpo che non li aiuta, ma vogliono partecipare, non vogliono essere messi ai margini. Ritenere importante solo la loro memoria è come individuare lo spazio in cui devono stare. Il resto dello spazio spetta ai giovani.
Poco tempo fa, Vito Biolchini parlava dell’analfabetismo tecnologico come di una realtà diffusa, che limita molto l’autonomia delle persone. È un problema che si può risolvere con una campagna di alfabetizzazione appositamente studiata, paragonabile a quella dei primi anni ’60 contro l’analfabetismo. Giovani e vecchi possono stare insieme e lavorare perché chi non conosce cose indispensabili nel mondo attuale le possa imparare. E i vecchi possono sentirsi ancora una risorsa e provare soddisfazione nel misurarsi con le difficoltà del presente. Se poi qualcuno è disposto ad ascoltare episodi del loro passato, sarà bene accetto, ma senza che questo diventi l’unico obiettivo del rapporto tra generazioni.
Bravo Paracchini: un saggio notevole.
Per quanto mi riguarda, in relazione alla mia età ormai avanzata, mi sono posto da tempo nel ruolo di testimone, con un minimo di cautela rispetto al rischio delle spiacevoli laudationes temporis acti.
In tempo di Covid 19, appare però più incombente ben altro rischio: quello della quasi inevitabile compartimentazione fra generazioni.
È evidente, infatti, come il maggior pericolo per i vecchi vada costituendosi – a partire dalla “fase 2” – proprio per il costituirsi delle generazioni più giovani nel ruolo di veicolo di contagio. I giovani, meno esposti – per fortuna – a un rischio mortale, ma comunque infettabili (e quindi infettanti) rischiano di essere interpreti della progressiva immunità di gregge, ma anche del micidiale contagio dei propri vecchi.
Una inquietante prospettiva, che rischia di relegare una generazione (abbondante) nel ruolo di scomodo compagno di viaggio per il resto dell’umano consorzio.
Oggi, sia pure con lo spirito che animava gli inquilini di Ventotene malati di antifascismo, mi sento relegato ai “domiciliari”; temo però l’ergastolo, come commutazione della pena di morte.
Allegria!
Ringrazio il dott Paracchini per la bella e profonda riflessione e per l’interessante proposta