Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno continua, inesorabile, la perdita di copie vendute dai quotidiani L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna. I dati che ci ha offerto Vito Biolchini nel suo intervento sono da stimolo per ampliare la riflessione e i contributi.
Gli attori che partecipano a questo processo sono due. Possono sembrare separati tra di loro ma invece sono legati da un abbraccio mortale: gli editori e i giornalisti. Insieme gestiscono il sistema dell’informazione e vivono come se niente fosse la débâcle degli altri (vedi Air Italy), secondo me consci che se continua così tra qualche anno potrebbe toccare a loro.
Vivere nella savana digitale che caratterizza questo millennio è difficile e le aziende italiane stanno mostrando tutte le loro debolezze strutturali senza avanzare un minimo di reazione, almeno un tentativo che ci faccia ben sperare in un cambio di direzione. Ma se il quadro nazionale delle imprese e di quelle editoriali in particolare è preoccupante, in Sardegna viviamo la crisi con ancor maggiore intensità.
Eppure il gruppo editoriale che fa capo a Sergio Zuncheddu, che ho avuto modo di conoscere personalmente e di apprezzare, non mostra segnali che ci facciano pensare ad una presa di consapevolezza, e quindi a prevedere una risposta forte e determinata per invertire i segnali negativi che colpiscono il comparto e la sua testata.
Da tempo mi chiedo “perché?”. E francamente non mi so dare una risposta.
La proiezione dei dati di vendita (una media di – 7,39 per cento per l’Unione Sarda e del – 9,30 per La Nuova Sardegna negli ultimi tre anni) ci fanno ben capire che se continuano così le due testate sono destinate a soccombere così come le abbiamo conosciute in questi decenni.
Ma allora, ammesso che sia possibile, come se ne può uscire? Come si può operare affinché non si disperda l’immenso patrimonio di conoscenza informativa e di professionalità maturato sino ad ora?
Studiando vari modelli imprenditoriali che operano nell’informazione cartacea e on line mi sto convincendo che tutto passa dal valore informativo di cui è capace una testata e il suo corpo giornalistico. Soprattutto questo valore è importante e decisivo nelle testate locali e iperlocali come l’Unione e la Nuova.
Se le persone che vivono nel nostro territorio partecipano a un fatto rilevante che le coinvolge emotivamente, e questo si allarga alla comunità, si aspettano che la stampa trovi almeno uno spazio o il tempo per mostrargli la partecipazione. Diffondendo la notizia, aumenta così la capacità catalizzante e di solidarietà da parte di altri cittadini.
Se invece, come è avvenuto da poco, il dolore e la sofferenza dei malati di tumore costretti a lunghe attese per avere le cure presso l’Ospedale Businco di Cagliari passa quasi inosservata e senza un servizio o una inchiesta da parte della principale televisione locale (che invece è prodiga di attenzioni con la politica quando il Commissario fa l’annuncio che sta risolvendo – forse – la situazione), allora è abbastanza naturale che le persone si disaffezionano ai media locali e li giudicano per quello che sono: lontani dalle istanze delle persone.
Ma questo è solo uno dei fatti che posso raccontare a mo’ di esempio e che mi inducono a pensare che la crisi delle vendite dei giornali è direttamente legata alla perdita di efficacia dell’informazione, che predilige il silenzio al racconto dei fatti.
Il prodotto che si manifesta con il giornale che va in edicola quotidianamente è già in crisi di suo per via della crescita dei canali digitali, più economici e più immediati per la fruizione delle news. Ma se a questo aggiungiamo il giudizio poco lusinghiero che i lettori danno dei giornalisti, che non sono più ritenuti i capisaldi e i fari capaci di illuminare il percorso di miglioramento democratico della nostra società, allora il quadro diventa davvero fosco per loro in primis e per noi di conseguenza.
Tra l’altro, in un momento come questo dove l’informazione che viene offerta nei canali digitali è spesso tacciata di essere scarsa e falsa (per principio), il giornalismo che anima le redazioni dovrebbe avere ancora maggiore chance di emergere dalla mediocrità. Invece anch’esso è stato travolto dalla superficialità, degenerando sino a evitare di dare le notizie per compiacere a chi non lo so! All’editore? Alla politica (che non è l’editore ma che alimenta il conto economico dell’editore)? Alle imprese private che acquistano spazi per la pubblicità e quindi vanno preservate dalla verifica del loro comportamento?
Ma tutti questi soggetti, se è vero che possono determinare la bontà del prodotto giornalistico, alla fine non sono in grado di garantire la sopravvivenza della intrapresa editoriale che invece è importante per mantenere il presidio democratico e i posti di lavoro.
Aggiungo ancora che il male che tocca l’editoria comprende anche le cooperative, che non avendo un padrone potrebbero fare meglio e con maggiore libertà.
Insomma va tutto male? Direi di no. E già il fatto che ne parliamo e scriviamo vuol dire che qualche voce esiste e bene fanno tutti a dialogare tra di loro.
Se imprenditori di successo che guidano in modo brillante le loro decisioni in altri settori si curassero anche del comparto editoria, approcciando con umiltà e circondandosi di elementi illuminati e preparati in grado di supportarli nelle decisioni necessarie per introdurre i processi innovativi capaci di restituire forza all’informazione e ricavi all’impresa, allora anche se le cose dovessero andare male si potrebbe affermare che ci hanno provato!
Invece all’orizzonte non si vede nulla.
Sandro Usai
Ottimo articolo. Io ho cominciato a disaffezionarmi all’Unione Sarda quando mi sono accorto che potevano o volevano scrivere solo quello che andava bene ai politici. Il resto veniva insabbiato all’occorrenza. E allora preferisco il nulla, anziché dover essere costretto a leggere un giornale di partito
Ma quali giornalisti, quali informazioni veritiere ? Il motivo e’ uno solo e irreversibile…col digitale, coi social media, coi telefonini oramai i giornali cartacei non li comprerà’ piu’ nessuno. Perche’ tutti andranno online e basta per leggere lo stesso articolo, leggere lo stesso editoriale, vedere lo stesso video o la stessa fotografia che gli arriva con una notifica sul cellulare o al massimo al computer. Da una testata registrata o da un amico su Facebook. Stop. Tempo tre anni o 5 anni. Si compreranno i giga e gli abbonamenti automatici online anziché’ andare in edicola. Purtroppo o per fortuna, fate voi, e noi siamo silenziosi testimoni di questo cambio mediatico epocale. Con le cuffiette nelle orecchie e speriamo senza mascherina in bocca.
Non vedo altri possibili modelli economici per far stare in piedi il giornalismo se non quello di Affari italiani.
Chissà se anche loro resisteranno a Facebook, contenitore di tante news mondiali e di altre strettamente locali, fino al livello de pidanciulus de bixinau.
Qui spiegano il successo di Affari italiani
https://www.panorama.it/news/economia/20-anni-di-affari-italiani