San Francesco di Stampace: per capire l’importanza e la ricchezza della chiesa cagliaritana fatevi un salto alla Pinacoteca Nazionale alla Cittadella dei Musei
L’incredibile storia del chiostro del convento di San Francesco di Stampace: riassunto delle puntate precedenti.
Dopo essere stato per anni in procinto di essere acquisito al patrimonio regionale, l’importante monumento nazionale cagliaritano viene venduto dai privati ad un altro privato, nel silenzio generale di amministrazioni pubbliche e istituzioni di tutela che decidono di non esercitare il diritto di prelazione garantito loro dalla legge.
In uno slancio di irrefrenabile generosità, il nuovo proprietario crea una fondazione (a se stesso e alla di lui consorte intitolata) e decide di donare alla città un fantomatico museo di arte contemporanea.
Il fatto che nel progetto, approvato con timbri e controtimbri di tutti generi, sia previsto non solo il restauro del complesso monumentale ma anche la ricostruzione di volumetrie scomparse da oltre un secolo e mezzo, non fa specie a nessuno tranne che al sottoscritto e al Fai.
In nome della sinistra dell’ecologia e della libertà, l’amministrazione comunale benedice infatti l’imprenditore (solo involontariamente ascrivibile alla categoria degli “amici degli amici”) e spiana la strada al di lui intervento, parificando la realizzazione di nuove volumetrie in un monumento secolare e bene identitario alla chiusura di una verandina qualunque in un palazzotto qualunque di Stampace alto; il tutto però in assenza di un piano particolareggiato del centro storico e dell’adeguamento del Puc al Ppr (quisquilie).
Se l’amministrazione comunale crede nella generosità del privato, quella regionale, con fare atarassico, se ne lava pubblicamente le mani. E siamo ai nostri giorni.
Questa è la lettera aperta che la professoressa Maria Antonietta Mongiu, presidente regionale del Fai, ha inviato al presidente della Regione Francesco Pigliaru. Le domande sono tutte politiche: anche Pigliaru continuerà a far finta di niente?
Una cosa è certa: il silenzio delle amministrazioni su questa vicenda è intollerabile. Ed io, per quel che potrò, continuerò a romperlo.
***
Cagliari, 23 novembre 2015
Alla cortese attenzione
del Presidente della Regione
Autonoma della Sardegna
Professor Francesco Pigliaru
Come già affermato nella Nota del 28 agosto u.s. il Fondo Ambiente Italiano, fedele al motto “Per il paesaggio, l’arte e la natura. Per sempre, per tutti”, è impegnato anche in Sardegna a creare nell’opinione pubblica un forte e deciso sentimento di protezione dell’immenso patrimonio culturale ed ambientale, fondamento della tenuta democratica della comunità, secondo l’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Articolo recepito dal DL 22/01/2004, n. 42 e ss. mi. (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”) che, accogliendo anche la Convenzione Euro- pea del Paesaggio del 2000, regola il Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna varato nel 2006 che attende di es- sere completato.
Il FAI in Sardegna, con eventi e momenti di studio, è in prima linea nella difesa di quel suolo e di quella storia i quali del paesaggio sono madre e alimento e, sempre più, vittime di aggressioni figlie della speculazione, spesso impropria- mente definita “verde” o “ecosostenibile”, che pare non si riesca ad arginare.
Come nella Nota del 28 agosto, Le sottopongo nuovamente all’attenzione la situazione del Chiostro di San Francesco di Stampace, testimonianza pregiata del patrimonio archeologico, architettonico, artistico della Sardegna. Si tratta di una parte del Chiostro della Chiesa gotica che si affaccia sulla Via Mameli, con accesso anche dal Corso Vittorio Emanuele su cui si sviluppava la Chiesa che crollò nel 1875, come documentano un sopralluogo di Gaetano Cima e di Giovanni Spano, i quali si spesero affinché le parti residue non fossero demolite, e il senatore Giovanni Siotto Pintor che, in precedenza, ne aveva auspicato, presso il Ministro, il restauro. Del medievale Complesso, nell’isolato tra le Vie Angioy, Mameli, Sassari e il Corso Vittorio, sussistono parti cospicue, frammiste a negozi, locali, case d’abitazione. Privatizzate dopo la dismissione, hanno subito nei decenni l’oltraggio di usi impropri – tipografia, magazzino di abbigliamento, caserma, sede di partiti – che non hanno alterato l’iconografia e la morfologia, cosa accaduta con le recentissime manipolazioni nelle porzioni prospicienti il Corso, autorizzate dagli Uffici locali del MIBACT negli anni 90.
Le porzioni sopravvissute nelle forme tardogotiche sono sovrapposte a tracce più antiche riconoscibili negli elevati e nelle superfici di strato del Chiostro, indagati a metà degli anni ’90 del secolo scorso. Le indagini su tecniche edilizie, elementi costruttivi, materiali lapidei hanno restituito stratificazioni dall’evo antico alla fase contemporanea e arricchiscono la conoscenza testimoniata da una considerevole bibliografia. Le stratificazioni in elevato abbisognavano esclusivamente di un restauro conservativo per restituire alla fruizione un raro caso di “archeologia degli elevati” referente di parte delle fasi storiche succedutesi nella città che le manomissioni, con discutibili “valorizzazioni”, hanno cancellato nelle altre porzioni.
Le continue manipolazioni sul monumento furono alla base dell’azione del “Comitato per la salvaguardia di San Francesco di Stampace”, fondato nel 1985 da diverse personalità tra cui l’allora Assessore alla Cultura della RAS e i Soprintendenti degli Uffici del MIBACT, l’architetto Francesca Segni Pulvirenti, il prof. Ferruccio Barreca, la dott.ssa Gabriella Olla Repetto, i vertici della Provincia Francescana tra cui Padre Marco Ardu, gli illustri accademici Giovanni Lilliu e Fernando Clemente. L’obiettivo del Comitato era la restituzione alla comunità delle parti sopravvissute del Complesso francescano.
Il Chiostro è attualmente oggetto di lavori di trasformazione – con aumento di cubature come esito della ricostruzione da realizzare su parti che sono nella situazione attuale da 140 anni – che, alla luce dell’importanza del sito e degli strumenti paesaggistici e urbanistici vigenti, creano inquietudine nella pubblica opinione e pongono interrogativi sui procedimenti autorizzativi che precedono e prescindono dall’attivazione del Piano Particolareggiato del Centro Storico, dall’adeguamento del PUC al PPR e dalle norme urbanistiche.
Il FAI ha sollecitato sul merito, in data 6 agosto u.s., il Sindaco di Cagliari che ha così risposto: “Per quanto attiene, invece, il Chiostro di San Francesco risulta che è stato attualmente avviato un progetto di valorizzazione e restauro da parte di un privato che ha condiviso con tutti gli Enti incaricati di vigilanza e controllo ogni necessaria interlocuzione sul progetto, avendo ottenuto tutte le autorizzazioni di legge”.
Sì fatta risposta non pare adeguata a rispondere alle preoccupazioni relative la vicenda di un monumento-principe del Medioevo sardo.
Stupiscono non diversamente le dichiarazioni rilasciate contestualmente alla stampa e successivamente alla Nota richiamata in esordio, da due assessori della Sua giunta che il Chiostro di San Francesco non è di competenza della RAS. Il profilo delle deleghe e delle funzioni regionali avrebbero richiesto ben altre considerazioni per il fatto che con DR 23/14 del 16/04/2008 “Chiesa e Chiostro di San Francesco di Stampace” sono inseriti nel “Repertorio del Paesaggio dei Beni Paesaggistici e Identitari “ per altro come bene vincolato e perché il monumento in un passato recente era sul punto di diventare di proprietà regionale.
Ancora una volta infatti, come già nella Nota del 28 agosto ripetutamente citata, il FAI richiama la Sua attenzione sul fatto che prima dell’ultimo passaggio di proprietà tra privati si era attivata nel 2008, durante la XIII Legislatura, tra la Regione Autonoma della Sardegna e l’allora proprietario, un’interlocuzione per l’acquisizione da parte della Regione della porzione del Chiostro in questione secondo quanto regola l’istituto della prelazione da parte di un soggetto pubblico per un monumento vincolato in vendita. L’intendimento era lo stesso del “Comitato per la salvaguardia di San Francesco di Stampace” ovvero recuperare con un restauro conservativo il Chiostro e risanare l’intorno e soprattutto le facciata degli appartamenti realizzati negli spazi della chiesa che attendono un piano di recupero da realizzarsi adeguatamente con un pubblico intervento.
La trattativa proseguita nella XIV Legislatura, come la stampa riportò, si è interrotta sorprendentemente con rinuncia da parte della Regione alla prelazione d’acquisto e alla riacquisizione al pubblico, da decenni auspicata, di un Complesso unico che, si ribadisce, necessita non di essere “valorizzato” quanto conservato e destinato al più ad ospitare i Retabli oggi esposti nella Pinacoteca Nazionale provenienti proprio dalla Chiesa di San Francesco di Stampace.
Sono fiduciosa che Lei vorrà occuparsi prontamente della situazione di un manufatto di tale valore e che intraprenderà interlocuzioni per l’acquisizione con l’attuale proprietario che ha dichiarato alla stampa di essere favorevole a tale soluzione. La Regione può persino optare per uno scambio di immobili avendo nella sua disponibilità edifici destinati alla dismissione. Tale percorso è stato già praticato dalla Regione sempre a Cagliari e sempre per salvare rilevanti testimonianze storiche. Il Fondo Ambiente Italiano della Sardegna auspica vivamente che si esperisca tale soluzione ed è disponibile a dare un fecondo contributo per la risoluzione di una vicenda che preoccupa quanti hanno a cuore il succitato dettato dell’art. 9 della Costituzione ed il bene comune.
Confidando che Lei vorrà intervenire nell’immediato, colgo l’occasione per porgerLe i miei più cordiali saluti.
Maria Antonietta Mongiu
Presidente Regionale FAI Sardegna
Solo per dire che il S. Pietro ed il S. Paolo riprodotti come ‘intestazione’ di questo dibattito sono, ahinoi, tra le poche opere custodite in Pinacoteca che non c’entrano proprio niente con il Chiostro di S. Francesco, provenendo, com’è noto a qualsiasi praticante della storia dell’arte sarda, dal Complesso del S. Domenico. Facevano parte di un volatilizzato grande retablo di cui costituivano i portelli laterali. Talvolta occorre…maneggiare con cura immagini ed informazioni.
🙂
Resto stupito dal tono di alcuni commenti sul destino del chiostro di San Francesco di Stampace. Tuttavia sono una persona particolarmente ottimista. Per questo motivo non ho dubbi sulla buona fede che ha mosso questo imprenditore a costituire una fondazione per la valorizzazione di questo importante monumento. Bene. Bravo. Encomiabile. Grazie a lui la città avrà un museo di arte contemporanea e il tutto in maniera disinteressata. Solo un animo nobile può dedicare soldi e tempo al recupero di un bene che poi verrà fruito dalla collettività. E allora, quale gesto più bello di donare, nel vero senso della parola, questo chiostro a quella istituzione che la collettività rappresenta, cioè lo Stato? A questo punto mi rivolgo direttamente a lei, illuminato imprenditore. Regali tutta la struttura alla Regione o al Comune, finanzi il restauro….Non spenderebbe un euro in più di quanto stia spendendo ora e dimostrerebbe ai malpensanti che dietro questa ristrutturazione non c’è nessun secondo fine ma solo tanto amore per la Storia e per questa città. Giustamente lei potrà restare un po’ perplesso perchè magari salterebbe il progetto del museo di arte contemporanea. In realtà la soluzione è lì, dietro l’angolo….e l’ha proposta la dott.ssa Mongiu…una bella permuta con una delle tante volumetrie regionali abbandonate o quasi. In questo modo regalerebbe alla città il suo chiostro, nella speranza che possa tornare quello che era in origine, un luogo di spiritualità e riflessione (aperto a tutte le culture e religioni, e Dio solo sa se ne abbiamo bisogno) e un museo di arte contemporanea che andrebbe ad abbellire ciò che magari oggi bello non è. Sì, un museo che porti bellezza….ma non dentro San Francesco di Stampace, perchè di bellezza ne ha già tanta e ha solo bisogno di essere mostrata. Non dimentichi mai che lei ha in mano una struttura UNICA, una parte dell’anima di questa città che noi cagliaritani abbiamo dimenticato. Allora non la banalizzi, non la tratti come un contenitore qualsiasi, sia capace di fare un ultimo sforzo. E verrà ricordato come colui che, dopo secoli di peripezie, ha riportato questo vecchio convento tra le braccia dello smemorato popolo cagliaritano.
Anch’io, come il sig. Spessotto, sono affetto da sano ottimismo. Se così non fosse stato, non mi sarei messo nei pasticci, come talvolta mi è capitato, solo per aver cercato di fare qualcosa nell’interesse generale.
Torniamo alla garbata e intelligente lettera alla quale cerco di dare seguito.
Punto di partenza, il proprietario attuale realizza uno scambio “patrimoniale” con la Regione; su quali basi, poco mi interessa, ma – dopo questo – ciascuno va felicemente per la sua strada. Egli, avendo deliberatamente e razionalmente effettuato lo scambio, saprà certamente cosa fare della sua nuova proprietà. A questo proposito, di ciò che succederà a lui e alle sue cose, a differenza di Scarlett O’Hara, non dico: “Ci penserò domani…”; dico invece, come Rhett Butler: “Francamente, me ne infischio…”. Punto. A capo.
Appunto, a capo. Cioè: da capo. Cioè: che fare?
Il pallino è felicemente passato alla Regione, la quale – non sapendo come spendere i suoi (nostri) soldi – ha finalmente trovato qualcosa in cui investire. A fondo perduto, forse. Naturalmente, qualcuno obietterà (giustamente, in fondo) che a investire in cultura non ci si rimette mai; se è vero (e probabilmente lo è, almeno per me) bisogna comunque tentare di sapere come ciò possa avvenire, attraverso quale meccanismo economico specifico, che non sia quello liso, stinto e stiracchiato che stenta a tenere in piedi l’intero nostro patrimonio culturale.
Per essere ancora più chiari: l’impresa che terrà in piedi tutto l’Ambaradan (S. Francesco, finalmente pubblico), su cosa si fonderà per essere “sostenibile”? Sulla vendita di santini, indulgenze, visite guidate a scolaresche acquiescenti? Questo – sia ben chiaro – non tiene in piedi nemmeno Pompei che, difatti, crolla.
Dunque: che fare?
“Ci penserò domani”?
Eh no, questa volta, visto che i soldi sono anche miei: “Francamente, non me ne infischio affatto”.
Con osservanza
Professor Campus, mi permetta di fare una piccola premessa. Chi scrive non è un addetto ai lavori e non si è mai occupato di politiche culturali o di urbanistica. Sono un semplice cittadino che cerca di far fronte alle grandi esigenze della vita odierna con i piccoli mezzi di cui dispone. Tuttavia, proprio perchè cittadino (e contribuente) seguo con attenzione quanto accade intorno a San Francesco di Stampace e colgo l’occasione dello spazio che Vito Biolchini mi concede nel suo blog per partecipare a questo piccolo dibattito.
Nella sua risposta ci sono dei punti assolutamente condivisibili a cominciare dalla domanda “che fare?” Giustamente, il rischio che lei palesa è che, una volta in mano pubblica, il chiostro venga ristrutturato a spese dei contribuenti senza che venga creato un soggetto in grado di sostenersi da solo. L’osservazione è interessante, però, a questo punto, mi sorge un dubbio. Se ciò che diventerà il chiostro, oramai pubblico, non potrà certamente sostenersi vendendo santini e indulgenze come potrà, invece, reggersi sugli incassi di un museo di arte contemporanea privato? Credo che ci siano ben pochi musei in grado di andare avanti con i ricavi dei biglietti, a meno che questi non si chiamino Guggenheim o simili. Onestamente non credo che le intenzioni del nostro imprenditore siano quelle di creare un grande museo anche perchè la struttura non sembra adeguata. Lei stesso, poi, cita Pompei. Se una meraviglia del genere non si sostiene con quasi 2 milioni di biglietti venduti figuriamoci altre realtà come la nostra. Non metto in dubbio che ci siano anche attività collaterali al museo che possono portare introiti interessanti. La sensazione, però, è che, come in altre occasioni, queste attività si concretizzino nel classico locale che venderà pizzette, drink, apericena e simili. Gli utili arriveranno (forse) e San Francesco si reggerà in piedi. Sia ben chiaro, però, che non avremo un nuovo spazio culturale ma un nuovo bar.
Quindi, che fare?
Da semplice cittadino che, per la sua cultura politica, crede nel ruolo del soggetto pubblico faccio mie le esortazioni della dott.ssa Mongiu e di Vito Biolchini. La Regione e il Comune hanno il diritto/dovere di intervenire nella vicenda, ma devono intervenire con le idee chiare. Sono d’accordo con lei che una semplice acquisizione al patrimonio senza un progetto valido potrebbe essere solo dannosa. Quello che però si chiede a Zedda o a Pigliaru è quello di trovare una risposta alla sua e alla nostra domanda: che fare? Chi governa deve essere in grado di dare risposte e non porre domande. Se queste risposte si nascondono dietro un’alzata di spalle a questo punto credo sia doverosa anche un’alzata dalla sedia che gli abbiamo gentilmente offerto nelle urne.
Per quanto mi riguarda non riesco a vedere San Francesco come un contenitore. Il protagonista è lui, il chiostro, e non ciò che ci metteremo dentro. Forse non sarebbe male partire dalle cose semplici. Acquisire il monumento con una permuta, ristrutturarlo e riportarlo ad una funzione simile a quella che aveva in passato. Un piccolo spazio verde aperto alle cittadinanza e alle associazioni che si occupano di temi legati alla spiritualità, alla filosofia, alla meditazione e altre iniziative culturali. Ridurre al minimo i costi di gestione. Ovviamente i contributi pubblici saranno necessari. Ma chi governa deve essere in grado di capire quali siano le priorità. San Francesco di Stampace, per la sua storia e per ciò che ha rappresentato per questa città, è una priorità e ci sarà pure un governante che avrà il coraggio di assumersi la responsabilità di una scelta.
E lo dice a me, che sono credente e, come so, praticante?
Lo dice a chi pensa (probabilmente a torto, ma lo chieda anche al rettore della chiesa di S. Agostino) che le leggi Siccardi abbiano arrecato un grave danno – per un malinteso senso della laicità dello Stato – all’identità nazionale e al suo patrimonio culturale, abbondantemente fondato su secoli di condivisa religiosità?
So che non troverò molti a pensare come me, ma io la penso così: “scherza coi fanti, e lascia stare i santi”. Quelle erano chiese, luoghi di culto, concepiti (e pagati da qualcuno, all’origine) per essere tali.
Ma, essendo a mia volta difensore convinto proprio della laicità dello Stato e delle sue leggi, sostengo che sia piuttosto difficile affermare che, una volta “spretata”, alla chiesa rimanga un’aura di sacralità, travalicante la sua originaria funzione chiesastica che è stata precedente e motivante la qualità monumentale.
Se è dunque un monumento – e mi pare ragionevole pensare che lo sia – ma non una chiesa, lo si usi sfruttando appieno tale qualità monumentale, ma “laicamente” anche sotto il profilo culturale, senza evocare contrizioni e sentimentalismi, che appaiono solo quando qualcuno improvvisamente si sveglia da secolare torpore culturale ed emotivo.
Quanto al che fare, lascio a Cesare quel che è di Cesare: alla sostenibilità delle imprese private, pensino i privati. Quel che mi preme, invece, è di evitare altre Ville di Tigellio, o simili.
Amen
Mi preoccupa Cesare che si troverà a dover gestire un monumento così delicato e importante per Cagliari…..ma forse mi preoccupano di più i tanti Ponzio Pilato che sono facilmente individuabili in questa vicenda….Ad ogni modo la ringrazio per lo scambio di opinioni che abbiamo avuto in questa sede.
Ricambio e… condivido le preoccupazioni.
Cordialmente
Io però continuo a non capire una cosa. Se si parla di “ricostruire” significa che le volumetrie esistevano da prima, cioè (se non capisco male) più di 140 anni fa, con la dovuta documentazione. Quindi non ci sono “nuove volumetrie”, ma volumetrie che esistevano e che ora vengono rifatte oggi. E dove sarebbe lo scandalo?
Io preferirei che non venisse ricostruito nulla, perché mi sembra che il “falso storico” e lo sfruttamento commerciale siano sempre compresi nelle cosiddette “valorizzazioni” del privato. Ma questa è una mia opinione. Non devo essere io a decidere, ma gli Enti di vigilanza coinvolti, nel rispetto delle varie normative urbanistiche.
Il resto sono legittime opinioni politiche, non più rilevanti del classico “mi piace/non mi piace” che si sente in giro per ogni cosa…
Lo scandalo è che una norma pensata per le normali abitazioni viene fatta valere per un chiostro che c’era già quando i pisani iniziarono a costruire le torri… E tutto in assenza di un piano urbanistico adeguato al Ppr che quel monumento lo difende in quanto bene identitario. Tutto qui.
W il partito del No tocchis nudda… W i ruderi !
W la speculazione edilizia! W l’asse Sel-Pd-Riformatori!
Caro Vito,
conoscendo (e apprezzando) S. Francesco nelle sue varie manifestazioni, compresa quella di Stampace, mi sembra che valga la pena di rileggere la faccenda in termini francescani: cioè, con serenità, onestà intellettuale e pragmatismo
Serenità: a chi giova una battaglia su S. Francesco? A nessuno, ritengo. Se S. Francesco diventa il campo di battaglia di una guerra combattuta in suo nome, ciò potrebbe decretare la sua fine: Salomone docet. Naturalmente, a nessuno sfugge che la mossa salomonica di annunciare la “spartizione” del bambino altro non fosse che un’azione intesa a identificare la madre, e quindi a perseguire la ricerca della verità. Ma, dunque: quale verità? La verità di chi?
Onestà intellettuale: c’è qualcuno che possa ragionevolmente affermare di essere certamente nel giusto proponendo una qualunque soluzione per S. Francesco? Ritengo di no. Come in molte cose di questo mondo (senza evocare gli imperativi categorici kantiani), le possibili interpretazioni e soluzioni di situazioni materiali (meno) e immateriali (più) sono quasi infinite, e propongono svariate opportunità di schieramenti. Dunque: che fare?
Pragmatismo: come in tutte le cose governate dal diritto (umano, con buona pace del giusnaturalismo), per prendere decisioni sono state definite strade conosciute (da tutti?) e ratificate (da tutti?). Tali strade sono enunciate, di norma, per almeno due buone ragioni: far sapere dove si possa (debba) andare, e fare in modo che ci si possa (soprattutto se si debba) arrivare nel modo più celere, facile e sicuro. Naturalmente, delegittimare tali “strade” perché non si condividono le decisioni che ne scaturiscono porta a una situazione di stallo: si rimette in discussione quello che viene comunemente chiamato “il sistema”.
Finite le premesse, e tornando a S. Francesco – ma non solo, ohimè – la questione si riduce al nodo: è la soluzione adottata che non piace, o non si ritiene legittimo il procedimento? Se – essendo il procedimento corretto, come non ho ragione di dubitare, al momento – la soluzione non dovesse piacere, non resta da sostenere altra tesi se non quella che procedimenti corretti non garantiscano soluzioni che piacciano (a chi?).
Ora, il solito S. Francesco (quello d’Assisi), quando ha capito che quello che veniva dal sistema non era di suo gusto, ha rivoluzionato il sistema stesso, creando scandalo, ma tracciando un’altra strada. Visibile e partecipabile per chi non condividesse quella corrente. Nel caso di S. Francesco (quello di Stampace), qual è la nuova, rivoluzionaria strada che si propone? La rivoluzione riguarda il merito (cioè i contenuti progettuali e funzionali), o il metodo (cioè una presunta inadeguatezza del tracciato amministrativo)?
Per il momento, non ho opinioni, salvo una: il peggior nemico del bene, notoriamente, è il meglio. Potrei aggiungerne un’altra: nel benaltrismo, non di rado, si massacra la democrazia (con tutti i suoi limiti).
Quanto a Pigliaru (vir probus, dicendi peritus): che c’entra? Servono forse poteri forti, commissari? Spero proprio di no, nell’interesse di tutti.
Caro professore,
la soluzione mi non piace (perché non mi piacciono e non mi convincono per niente le posticce ricostruzioni previste e di cui il chiostro può fare benissimo a meno) e il procedimento mi lascia molto perplesso. Tutto qui.
Caro Vito,
potrei dire (ma non lo dico): “Sutor, ne ultra crepidam…”. sarebbe troppo facile, e quindi scorretto; credo che sia utile per tutti che le opinioni vengano sentite e discusse, quindi: grazie a chi le discute e le fa discutere.
Tuttavia, nella nostra Società, esistono temi che devono essere trattati da soggetti particolari “per legge”, che hanno quindi responsabilità specifiche in termini culturali e tecnici, e sono – in genere – identificabili attraverso l’iscrizione in appositi “albi”. Certe cose, infatti, possono essere “pensate” da tutti, ma “fatte” solo da medici, avvocati, farmacisti, etc.
E’ un male? E’ un bene? Non sta a me dirlo, ma è così.
Come già detto, questo non limita più che tanto il diritto di critica e di dissenso; anzi, chi critica rende in genere un servizio importante, specie se tratta degli abiti dell’Imperatore.
Ma – in questo caso francescano, ferma la critica e i dubbi – quale sarebbe la cosa giusta da fare? E chi dovrebbe farla? E con quali mezzi?
Quanto al rapporto vecchio-nuovo, ricordo il precedente del Castello di S. Michele, senza arrivare alla Piramide del Louvre, ai Lloyd’s di Londra etc.
Si potrebbe dire: “Ma quelli…”.
Certo. Pitigrilli diceva: “Tutte le donne sono puttane, eccetto nostra madre e la donna della quale siamo attualmente innamorati. Ma quelle non sono donne, sono angeli”.
Cordialità
Caro professore,
perché se la prende con me (che in latino avevo un sei stiracchiato) e non interloquisce direttamente con Maria Antonietta Mongiu? Penso che la presidente del Fai abbia tutte quelle “responsabilità specifiche in termini culturali e tecnici” che lei evidentemente a me non riconosce.
Detto questo, la cosa giusta da fare è verificare la correttezza del procedimento amministrativo, ed è ciò che la lettera del Fai chiede al presidente Pigliaru. Chi sono io per avanzare e sostenere questa richiesta? Semplicemente un iscritto all’albo dei giornalisti.
Cordialità.
Sempre più caro Vito,
a ciascuno i suoi ruoli: Maria Antonietta Mongiu (amica carissima), interpreta egregiamente il ruolo di presidentessa del FAI, come tu fai (minuscolo), altrettanto egregiamente, il giornalista e – hic e nunc – il conduttore di un luogo di confronto.
Io tento di fare la parte di un “cittadino”: non me la prendo con nessuno, e tantomeno con chi offre un servizio o sollecita un dibattito.
Peraltro, non sto parlando da architetto, ma da uomo della strada, che rispetta e considera le professionalità come dei presìdi della Civil Society. Per sorte, nel nostro antico e grande Paese le professionalità sono formalizzate: tutto qui.
L’essere presidente di qualcosa non abilita a nulla, e non offre garanzia di alcunché, almeno nel regime professionale; l’essere persone intelligenti , sensibili e propositive, invece, aiuta. Chi? Tutti, professionisti compresi.
Però, per non restare sulle nuvole, cerco di rilanciare l’eterna domanda: “Che fare?”.
Infatti, una volta che si dovesse stabilire se il procedimento amministrativo sia corretto oppure no – magari senza scomodare Pigliaru – non si sarà data alcuna risposta alla stessa domanda, ma si dovrà prendere per buona la soluzione in corso se il procedimento fosse corretto o, al contrario, correggere il procedimento sbagliato, per fare la stessa cosa in modo corretto. In pratica, non si discuterebbe affatto del merito, ma solo della forma.
E quindi?
Che fare?
Con simpatia
Che fare? Quello che propone il Fai: acquisire dal privato il chiostro secondo una modalità (la permuta) già sperimentata dalla Regione.
Ai cagliaritani piacciono sempre le cose che … non ci sono più 🙂 Quando ci sono ancora non sembrano abbastanza interessanti.
Biolchini, più la leggo e più rimango sconcertato per questa sua guerra contro un progetto che doterebbe la Città di una struttura museale bellissima e recupererebbe un rudere abbandonato da decenni. Ma lei il Chiostro del Bramante lo ha mai visitato per esempio? Se si le ha fatto tanto orrore e sdegno? Perchè questo diverrebbe per Cagliari il Chiostro di San Francesco: un sito museale gestito da una fondazione privata. Ma le fa così schifo?
No, non mi fa schifo l’impegno di una fondazione privata, anzi: mi dispiace solo che in cambio di tanta generosità l’amministrazione pubblica sia disposta a concedere la ricostruzione di parti scomparse da oltre un secolo e mezzo. Cemento insomma, il solito stramaledetto cemento: come a Tuvixeddu Le risulta che nel chiostro del Bramante abbiano costruito dal nulla non so quante centinaia di metri quadri? Se lo avessero fatto, avrebbe provato schifo anche lei.
Mi risulta si visto che c’è un BAR e un book shop anche nel Chiostro del Bramante. A lei no invece? Male!
Pietro, non può non aver capito cosa sto dicendo, non può. Il bar e il book shop nel chiostro del Bramante non stanno dentro locali ricostruiti dopo 150 anni, non penso proprio.
Ma mi spiega cosa le disturba se dove le strutture ormai mancano le sis ostituisce con cubature nuove ovviamente integrando tutto a regola d’arte? Un recupero è anche così. E ne abbiamo centinaia di esempi in tutta Europa.