Annino Mele in una foto di qualche anno fa
Annino Mele è in carcere ininterrottamente da 28 anni. Mai un’uscita, mai un permesso: neanche per andare al funerale della madre. Annino Mele è un ergastolano “ostativo”, cioè di quelli che se non parlano, se non collaborano con la giustizia, non accedono a nessun tipo di misura alternativa alla detenzione, neanche se la loro condotta è irreprensibile. Annino Mele da Mamoiada non ha parlato e non parlerà: lui è fatto così. E di anni in carcere in realtà se ne è già fatti 32, se aggiungiamo i quattro passati dentro prima della sua definitiva cattura avvenuta nel 1987.
Anche se però non può lasciare il carcere, ci sono due modi per incontrare Mele. Il primo è leggere i suoi libri (ha sempre scritto tantissimo), il secondo è andarlo a trovare a Uta, nella casa circondariale in cui da maggio è ospite. Una struttura costruita in mezzo al nulla, inesistente per la segnaletica stradale, come se qualcuno avesse deciso che questo posto dovesse restare nascosto agli occhi di chi anche solo lo volesse vedere da fuori: una vergogna.
Annino Mele è un signore di 64 anni e ora sta dietro la scrivania della biblioteca del carcere per parlare del suo libro “Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana”, edito nel 2005 da Sensibili alle Foglie. Insieme a lui, in una iniziativa organizzata dall’associazione Socialismo Diritti e Riforme presieduta da Maria Grazia Caligaris, la giornalista Rai Flavia Corda, il direttore di Sardinia Post Giovanni Maria Bellu, l’educatore Claudio Massa, il dirigente dell’Ufficio detenuti del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Giampaolo Cassitta, la consigliera regionale ed avvocato Anna Maria Busia. Altri interverranno nel corso del dibattito. Ad ascoltare siamo una cinquantina di persone, tra cui una trentina di detenuti. Dopo pochi minuti è praticamente impossibile riuscire a distinguere chi uscirà dal carcere fra qualche ora e chi passerà dentro ancora mesi, anni, decenni.
“Mai” è un libro molto duro nel quale più che dell’ergastolo si parla della schizofrenia del sistema carcerario italiano e delle gigantesche vessazioni che i detenuti devono quotidianamente subire e che minano il loro già precario equilibrio. E poi ci si mettono anche le nuove tecnologie. Una volta sui fascicoli c’era scritto “Fine pena: mai”; ora siccome i computer amano i numeri e non le lettere, tutto è cambiato e ogni ergastolano sa che potrà uscire il 9-9 del 9999. Piccole violenze informatiche.
“A cosa serve l’ergastolo? A cosa serve per un detenuto l’ergastolo se gli è negato un percorso di riabilitazione?”, chiede Flavia Corda.
“Il carcere così com’è non serve a niente”, chiarisce subito Annino Mele.
“Da detenuto ho conosciuto tanti fine pena mai, ma i soggetti più deboli sono quelli che hanno da scontare pene lievi, anche solo sei mesi, e che entrano in crisi quando si scontrano con un sistema che quando si chiede una visita medica ti fa attendere cinque o sei mesi per una risposta. È possibile che queste persone le debba contenere il carcere? Non è possibile trovare soluzioni diverse? Perché pensare che tutto debba essere risolto chiudendo in una cella le persone? Mi rammarico per questo, e mi rammarico anche per le nuove carceri sarde. Che cosa ci portano? Non sarebbe stato meglio studiare modalità di carcerazione alternative?”.
Non è andata così. Il carcere di Uta è stato costruito in una landa desolata ai margini della zona industriale di Macchiareddu, letteralmente isolato dal mondo. La struttura è moderna, è vero, ma in molte celle già è spuntato il terzo letto. Un ragazzo la settimana scorsa ha tentato il suicidio. Nelle cucine intanto sono spuntati i topi.
Le regole interne poi sono cambiate. “Stiamo peggio che a Buoncammino” mi dicono le mie vecchie conoscenze, “l’impressione è che si stiano preparando all’arrivo del 41 bis e che vogliano già da adesso governare il carcere con il pugno di ferro, ma noi non siamo detenuti in alta sicurezza, siamo detenuti normali. Perché non possiamo mangiare più pesce? Perché? Perché non possiamo mangiare pesce?”.
Forse per lo stesso motivo per cui ad Annino Mele nel carcere di Salerno era stato sequestrato un orologio che aveva tenuto in altre strutture per vent’anni. Un orologio normale improvvisamente diventato pericoloso. Perché? Annino Mele ha una risposta.
“Per anni abbiamo temuto che il sistema carcerario italiano potesse essere privatizzato come quello americano, e non ci siamo accorti che la privatizzazione è avvenuta lo stesso. Il carcere oggi è privato perché manca completamente una politica penitenziaria forte, e non solo per i detenuti. Da un carcere all’altro le situazioni vengono stravolte, non c’è uniformità di trattamento. Ogni carcere si fa la sua legge, per questo che dico che è privato”.
A Uta, ad esempio, è proibito tenere in cella degli evidenziatori: sì, avete capito bene. Ad Alghero invece i detenuti possono usufruire di barbecue all’aperto e di play station in cella. “Sì, ma non ci sono più fondi per la scuola alberghiera” dice un ragazzo dalla platea. Cassitta, in rappresentanza dell’amministrazione, allarga le braccia: “Gli operatori si muovono nel vuoto. Dovremmo avere il coraggio di eliminare dal carcere le persone che col carcere non c’entrano nulla”.
E poi c’è la Costituzione. Articolo 27, terzo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
“Tutto ciò è in contraddizione con i nostri codici penali, ancora di stampo fascista” dice Mele. “In assenza di una vera riforma, i fascisti sono rientrati dentro i centri di potere. La prima timida riforma si fece nel 76, poi ci fu il piccolo passo della Gozzini dieci anni dopo. Nel 92 poi c’è stata la mazzata della Scotti–Martelli e da allora si è iniziati a tornare indietro. Perché le cose positive vengono distrutte?”.
Annino Mele non si censura. “Parlare del carcere è importante ma chi lo fa ne paga le conseguenze, soprattutto quando racconta la quotidianità di ciò che avviene dietro le sbarre. Io nel mio libro ‘Mai’ l’ho fatto, mi dispiace se qualcuno se l’è presa ma io sono una persona libera, mi sento libero e di queste cose parlo sempre. Perché se si nascondono la situazione peggiora e quindi è bene dirle”.
Annino Mele: un ergastolano in cella da 28 anni e che dice: “Io sono libero”. E continua:
“La questione carceraria non è solo ergastolo: in queste condizioni l’ergastolo lo sconta anche chi ha solo un mese da fare. Tanti anni fa a Nuoro conobbi un ragazzo a cui una multa venne commutata in quindici giorni di carcere: lo trovai in cella che stava per impiccarsi”.
“E poi la condanna non può esser quantificata solo in anni da scontare, ci sono anche la solitudine e la disperazione. Il carcere non è attrezzato, ci sono tanti vuoti nell’istituzione carceraria e ci vuole la volontà di tutti per colmarli. A Busto Arsizio il direttore ci dava responsabilità, ci considerava delle persone. Ma non sempre è così, e i detenuti sono sempre degli ex. La pena si sconta anche fuori”.
Organizzare incontri in carcere per i detenuti non è semplice, gli ostacoli da superare sono tanti, “coniugare le esigenze della sicurezza con le attività che si propongono è un rebus”, spiega l’educatore Claudio Massa. Per fortuna che la biblioteca di Uta è grande ma solo perché ospitata dentro uno spazio inizialmente destinato ad accogliere un’officina, per i libri qualcuno aveva pensato bene che sarebbero bastati trenta metri quadri, uno spazio più piccolo di quello a disposizione nel vecchio carcere di Buoncammino. Poi per fortuna qualcuno ha alzato la voce ed ora la biblioteca è bella spaziosa, capace di fungere anche da spazio conferenze per quasi cento persone, in attesa che il teatro da 400 posti costruito all’interno del carcere venga definitivamente allestito.
Annino Mele ha finito e si apre il dibattito. “L’Italia è un paese giustizialista, i crimini vengono enfatizzati dai media, amnistia e indulto non risolvono il problema delle carceri”, dice qualcuno. “È vero, ma non criminalizziamo solo l’amministrazione penitenziaria, anche noi detenuti non siamo in grado di affrontare i nostri problemi tutti assieme, anche noi dovremmo essere più maturi. Dovremmo attivarci in modo diverso nelle nostre proteste”, risponde un altro.
Rina Del Pero è una volontaria che lavora nelle carceri di Bollate e di Como, da anni conosce Mele e lo segue nel suo pellegrinaggio carcerario su e giù per l’Italia: “Non dobbiamo inventarci niente di nuovo, le leggi per imprimere una volta ci sono già, dobbiamo solo coordinare le azioni”. Chi sta fuori dal carcere può fare molto. Laura Pozzi è una insegnante dell’Istituto Professionale di Stato “Don Milani” di Meda che segue in un progetto didattico due classi che da anni sono in corrispondenza con Mele. “Il discorso di fondo è uno solo e riporta alla paura del diverso”, afferma.
“Perché c’è un parallelismo tra la questione dei migranti e quella dei carcerati” spiega il giornalista Giovanni Maria Bellu. “Per affrontare queste questioni nessuno vuole usare il buonsenso, e così siamo vittime di un mix micidiale creato da una classe politica irresponsabile e da una classe giornalistica dalla cultura primordiale”.
Sì, è così. Giornalisti che non rispettano i detenuti, i loro diritti, la loro dignità, ma anche giornalisti troppo accondiscendenti verso le procure e i magistrati, incapaci di mettere in discussione le loro inchieste e le loro sentenze. Se la democrazia nasce da un equilibrio tra i poteri, spesso sugli organi di informazione quello della magistratura spesso non conosce alcun limite.
Nelle carceri italiane non c’è democrazia e forse ha ragione Annino Mele quando, in apertura del suo intervento, ha affermato che nelle società moderne la lotta contro il crimine sta conducendo a sviluppi totalitari. Una società è democratica nella misura in cui lo sono anche le sue carceri. C’è democrazia nel carcere di Uta?
“Ora finalmente si può tornare a parlare dell’abolizione dell’ergastolo” afferma l’avvocato e consigliere regionale Anna Maria Busia, “c’è in campo un movimento nuovo”.
“Sì, però perché in questo carcere nonostante le celle restino aperte, non si può uscire nei corridoi?”. E alla domanda di Maria Grazia Caligaris dalla platea si alza convinto un applauso.
Giusto per farvi un’idea…
Quasi quasi li proporrei per il nobel per la pace!
Ma per piacere….
Hanno fatto un carcere nuovo a uta per carenze di spazio e decenza della struttura questo a favore dei detenuti e sopratutto della polizia penitenziaria .
Ora dopo 28 anni il sig .Mele si sente libero e questo potrebbe essere positivo per lui , ma la libertà che si sente addosso va a cozzare la libertà che lui stesso e i suoi complici hanno negato per le centinaia di milioni di lire chieste come riscatto ai familiari dei sequestrati.
Quindi non condanniamo il sistema carcerario per quello che è realmente .
In fondo esistono nazioni che si professano la culla della democrazia dove i poliziotti prima ti sparano e poi vanno a vedere chi sei …… E sopratutto se ti condannano a morte stai sicuro che prima o poi lo fanno.
Io li manderei in USA o Russia per fare un paragone con la qualità della vita in carcere .
Altro che 41 bis
Buona pena
ciao qualcuno lo sai per favore in che carcere se trova Annino? grazie
Carcere di Uta, nei pressi di Cagliari.
grazie per la risposta
Certo che leggere commenti come quello del sig. Fabio ti fa cadere le braccia…
Anche lui quando ha commesso i reati per i quali e’ in carcere, ha commesso un arbitrio, un ingustizia, proprio come quella che secondo lei vige nei carceri italiani. E dunque che facciamo? Eliminiamo il carcere perche’ commette ingiustizie, tu consigli. Ma allora dovremmo eliminare chiunque commette ingiustizie…..se seguiamo la sua logica matematica, applicata al carcere, le pare?
Dico, ….ma dove ca..o vivete con il cervello?
Mi sembra di capire che non gli piaccia di stare in galera. Omicidio, sequestro di persona, banda armata… Ci doveva pensare prima, prima di cercare i soldi facili, la bella vita a spese altrui, prima di premere il grilletto. Si goda la sua libertà.
Bellissimo articolo, Vito. Se poi si andasse a vedere le statistiche sulla popolazione carceraria e sulla sua composizione (che so tu conosci bene) , forse ci si dovrebbe fare anche qualche altra domanda. Su certa parte dell’informazione, su accondiscendenza di comodo, ci sarebbe tanto da dire, purtroppo.
“Il carcere così com’è non serve a niente”. Forse non è così, visto che trasforma sequestatori e brigatisti in prolifici intellettuali. Viceversa le vittime, pur se libere e ammesso che non siano morte, passano il resto della vita in silenzio.
Non entro nel dettaglio delle ragioni per le quali Annino Mele è stato giudicato colpevole. Ci ha già pensato la giustizia. Mi interessa molto quanto da lui raccontato perché è vero: il sistema carcerario che, sulla carta è una cosa e in pratica è un’altra cosa, e che prevede un corpo di polizia a ciò destinato, funziona con un sistema di regole stratificate dal fascismo ad oggi che molto dell’epoca fascista continua a preservare. Ora mentre con la legge 180 del 13 maggio 1978 si è avuto il coraggio di eliminare concettualmente i manicomi – solo da quest’anno gli ospedali psichiatrici giudiziari (i così detti manicomi criminali) – il passo giusto è l’eliminazione degli istituti di pena che così come sono rappresentano zone di non controllo in cui l’arbitrio regna sovrano. E dove c’è l’arbitrarietà c’è spesso l’ingiustizia.