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Il mio ricordo di Vindice Ribichesu, il giornalista che disse no a Rovelli e alla petrolchimica

Ribichesu

Vindice Ribichesu in una immagine di Andrea Meloni (Archivio “Immagini per la Storia”)

Venerdì scorso in Consiglio regionale, ad un mese dalla scomparsa, è stato commemorato il giornalista Vindice Ribichesu. Negli anni 70 ebbe il coraggio di opporsi al petroliere Nino Rovelli e rinunciò all’incarico di direttore della Nuova Sardegna. All’iniziativa, organizzata dal Corecom, sono intervenuti il presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau, il presidente del Corecom Sardegna Mario Cabasino, i giornalisti Alberto Pinna e Massimiliano Rais, il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Sardegna Francesco Birocchi, il vicepresidente della Fondazione Sardinia Piero Marcialis (con l’intervento “In memoria di Vindice Ribichesu”), il direttore della Fondazione Sardinia Salvatore Cubeddu, l’editore Aldo Brigaglia, il presidente dell’Istituto Gramsci Sardegna Eugenio Orrù e lo storico Gianfranco Murtas (esaustivo il suo “Ribichesu, fra giornalismo e massoneria la via per la libertà e il progresso civile e materiale della Sardegna”). Anch’io sono stato invitato a portare il mio contributo, e questo è l’intervento che ho letto nell’occasione.

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Vi ringrazio per l’invito e per questo onore di poter ricordare oggi in questo luogo così prestigioso Vindice Ribichesu. Altri meglio di me ne delineeranno il profilo umano e professionale, io porterò solo la mia testimonianza, la testimonianza di chi da giovane vent’anni fa incrociò un uomo e un giornalista fuori dal comune. Vi ringrazio anche per avermi consentito di aprire questa celebrazione, un impegno precedentemente assunto mi costringerà infatti a non poter seguire fino alla fine i lavori.

Quando si è molto giovani e si sogna di fare i giornalisti non si sa bene da dove cominciare.

Una volta al giornalismo si arrivava attraverso l’impegno politico. Il giornalismo era una forma di militanza e questa militanza contribuiva a formare una professionalità che poi avrebbe trovato nella pratica sul campo il suo naturale complemento. Studio, osservazione e racconto della realtà non erano fattori disgiunti nella professione giornalistica, nella quale i valori di fondo, le idealità, costituivano un robusto ancoraggio al quale fare riferimento quando quella realtà, spesso molto complessa, si era chiamati a raccontarla. Certo, poteva anche capitare che in qualche caso la militanza si trasformasse in servilismo, che al merito venisse preferita la vicinanza ossequiosa e feudale al capo di turno. Ma stiamo comunque parlando di un’epoca in cui al giornalismo era riconosciuto, soprattutto da chi lo voleva praticare, lo status di professione intellettuale.

Tutto questo avveniva fino agli anni 80, perché negli anni 90, gli anni in cui io, in un modo o in un altro, ho iniziato a fare il giornalista, lo scenario era già cambiato. Moribondi i partiti, assenti le scuole di giornalismo, latitanti le università, spariti i luoghi di confronto intergenerazionale, la voglia che i giovani avevano di raccontare la realtà sui giornali, nelle tv o nelle radio se da una parte non trovava modo di alimentarsi delle idealità più nobili, dall’altra non aveva neanche percorsi certi, codificati, grazie ai quali accedere alla professione giornalistica.

Nelle redazioni si stava passando dall’era dell’abusivato, quella in cui un giovane veniva scelto dalla redazione e da essa accompagnato per un periodo certo fino all’assunzione che la redazione di fatto sollecitava all’editore, a quello del precariato, in cui anni di collaborazione spesso molto qualificata non portavano a nulla se non ad un aumento dello sfruttamento da parte delle imprese editoriali, e le assunzioni avvenivano sempre più raramente e quando avvenivano talvolta rispettavano non criteri di merito ma di appartenenza e di ubbidienza.

Saltato il legame in qualche modo virtuoso che univa il giornalismo alla politica, si chiudeva la stagione dell’impegno e si apriva dunque quella dell’interesse personale, delle carriere individuali. La crisi era imminente e qui siamo.

Anche se non sembra ho anch’io qualche capello bianco e gli oltre vent’anni di iscrizione all’ordine mi consentono di poter serenamente affermare che in Sardegna la crisi dell’editoria non è nata con internet ma è stata generata dalla ingordigia degli editori e dall’egoismo di molti giornalisti, che negli anni in cui le imprese editoriali facevano miliardi di lire di utili non hanno gettato le basi per un rinnovamento dei prodotti editoriali e un rinnovamento della classe giornalistica aprendo ai più giovani. E già che ci siamo consentitemi di aggiungere a questo elenco di colpevoli anche la politica, la cui insipienza ci ha privato di leggi adeguate che avrebbero aiutato il settore editoriale.

Fu dunque in questa ricerca di modelli, di esempi da cui trarre un qualche insegnamento, qualche indicazione che fosse utile all’inizio di un percorso professionale, che nei primi anni 90 conobbi Vindice Ribichesu. Lo conobbi prima nei racconti di Gianfranco Murtas che aveva raccolto attorno a sé un piccolo nucleo di giovani aspiranti giornalisti dalla variegata provenienza culturale, e per poi conoscerlo di persona, anche all’interno del Comitato Sa Die che in quegli anni iniziava a riunirsi e nel quale generosamente fui cooptato.

Ribichesu era un uomo curioso e dunque quando ci conoscemmo mi fece molte domande, voleva sapere come un ventenne vedeva il giornalismo e cosa succedeva nel mondo delle redazioni. In questo scambio lui portava la sua straordinaria esperienza che però non faceva mai pesare. Era stato un giornalista con grandi responsabilità ma nel rapportarsi ad un ventenne non faceva pesare il grado ma anzi ci teneva a mettere quel giovane a proprio agio, condividendo con lui quei saperi e quei valori propri della nostra professione.

Una condivisione che passava attraverso tanti racconti, storie di redazione, di come concretamente ci si era rapportati con il potere e la politica in un periodo cruciale per la nostra isola come sono stati gli anni 70. Ribichesu raccontava quegli anni non con nostalgia, perché furono anni durissimi, ma con la consapevolezza di chi sapeva che ciò che era avvenuto allora era la chiave di interpretazione della storia della Sardegna dei decenni successivi.

Il Lunedì della Sardegna, nel suo secondo numero del 13 agosto del 73, dedicò la doppia pagina centrale ad un’inchiesta. Titolo: “Sardegna, ecco come la distruggono”. Sommario: “I tre flagelli dell’isola: inquinamenti industriali, speculazioni edilizie sulle coste, servitù militari. I centri decisionali sono altrove, la Regione e i poteri locali non fanno una politica di controllo e contenimento. L’Autonomia esce mortificata da tutte queste vicende”. Agosto 1973.

Oltre le differenze di età, Ribichesu era anche capace di stabilire rapporti molto cordiali anche con i giovani, raccontava i titoli sballati passati alla storia, ma questa condivisione assumeva contorni di complicità quando raccontava gli anni della sua vita universitaria, gli anni gloriosi delle dispute goliardiche tra gli atenei di Cagliari e di Sassari, quando un giovane Ribichesu, dopo il furto del gonfalone dell’università di Sassari da parte dei cagliaritani, progettava addirittura con i suoi colleghi di far sparire il simbolo stesso del capoluogo, quell’elefante sulla Torre pisana ben in vista dalla stanza del rettore! Il piano sfumò ma a distanza di anni negli occhi di Ribichesu restava ancora quel guizzo di sana follia che aveva per giorni animato quei goliardi sassaresi.

Era una persona con un tratto umano che tradiva una vera generosità.

Il regalo più bello che un adulto può fare ad un giovane è quello di ascoltarlo e di prenderlo sul serio ed io questo regalo l’ho ricevuto da Vindice Ribichesu, un regalo che non dimenticherò mai e che mi veniva fatto in un momento del mio percorso professionale in cui le incertezze superavano di gran lunga le certezze e dove il futuro era un muro che Ribichesu con le sue parole e la sua fiducia mi rendevano meno insormontabile.

Se non avessi incontrato persone come Ribichesu (ma anche come altri giornalisti che oggi vorrei ricordare perché anche loro hanno scritto pagine importanti della nostra professione, i primi due sono recentemente scomparsi ed sono Giorgio Melis e Gianni Massa, ed il terzo proprio qui in consiglio regionale ha lavorato a lungo, ed è Giuseppe Podda: erano molto diversi tra loro ma tutti e quattro amavano il loro lavoro e credevano nel giornalismo come strumento di miglioramento della società), se non fossi stato testimone della generosità di Ribichesu e della sua profonda umanità, non solo probabilmente non avrei fatto il giornalista ma sicuramente non lo avrei fatto così come ho scelto di farlo. E so di non essere l’unico a cui questo incontro ha cambiato per certi aspetti il percorso professionale, altri testimonieranno dopo di me.

Ci sono però cose che a vent’anni non si capiscono del tutto ma a quaranta, a cinquanta sì. Ora, il terribile scontro di Ribichesu con il petroliere Nino Rovelli, la sua ribellione ad un giornalismo apertamente sottomesso ai poteri economici, nel racconto di allora nella mia immaginazione di ventenne assumeva una connotazione eroica, direi banalmente eroica. Ora però di quel gesto, di quel rifiuto sono in grado anche di comprendere la tragicità. Uno dei migliori giornalisti di quella generazione, arrivato al culmine della sua carriera era costretto a mettere in gioco se stesso e rinunciare ad una responsabilità che meritava per non tradire i suoi valori. E per farlo non solo sacrificava la sua carriera ma metteva a rischio anche il proprio percorso di vita.

Il racconto che Ribichesu più volte mi fece di un’impresa editoriale che non lo vide protagonista ma che fu il Lunedì della Sardegna a distanza di anni assume ora nel mio ricordo le tinte fosche di una tipografia che non si trova perché nessuno vuole stampare un giornale che non sta con Rovelli. Eppure in tanti ci partecipano, magari anonimamente ma desiderosi di continuare la lotta. Perché questo è stato in fin dei conti l’insegnamento più profondo che io ho tratto dalla vicenda professionale di Ribichesu. Parafrasando Fortini, il giornalismo è la lotta per il giornalismo, è la battaglia per creare le condizioni affinché la libertà di stampa non sia lettera morta ma un diritto vivo, vero. Ribichesu ha combattuto per il giornalismo in Sardegna, e per questa battaglia ha messo in gioco tutto se stesso.

Il suo rifiuto non è stato un semplice no ma è un esempio che resta negli anni e che oggi è più attuale che mai. Il suo rifiuto è stato un sì alla libertà che è la vera condizione senza la quale non può esserci vero giornalismo.

L’esperienza professionale e umana di Ribichesu continua ad essere importante nella Sardegna del 2015. Senza libertà non c’è giornalismo, senza cultura non c’è giornalismo.

Perché Ribichesu era un uomo libero ed era un uomo colto. Queste sono le due dimensioni della nostra professione, questo è l’unico modo per uscire dalla crisi: giornalisti più preparati, quindi redazioni più forti davanti alle prepotenze della politica e dei poteri economici. Ma anche giornalisti consapevoli del loro ruolo nella società. Più preparati e quindi più generosi.

Queste virtù Vindice Ribichesu le incarnava con naturalezza.

Ma c’è un’altra lezione che ci lascia e riguarda la sua attenzione per le piccole testate, per i giornali autogestiti dai giornalisti, la possibilità dei giornalisti di essere editoria di se stessi. Quello continua ad essere il futuro, perché non c’è libertà dell’informazione senza pluralismo dell’informazione.

Più volte Ribichesu ha animato dibattito sul tema dell’informazione in Sardegna, senza stancarsi mai di richiamare la politica alle sue responsabilità. Dovremmo farlo anche noi, oggi qui. La politica sarda sta abbandonando l’informazione al suo destino, con atteggiamenti spesso non giustificabili.

E allora se crediamo realmente nei motivi profondi che oggi ci hanno spinto ad essere qui senza retorica, dovremo prendere un impegno reciproco per far sì che la storia professionale di Ribichesu non venisse dimenticata. Con atti simbolici, come l’intitolazione della sala stampa del consiglio regionale, ma anche con una ristampa anastatica del Lunedì della Sardegna, con una antologia dei suoi scritti, con una pubblicazione magari curata dall’Ordine e dall’Associazione della Stampa Sarda che tramandi ai giovani l’esempio vivo e attuale di Ribichesu, anche per rimediare, lo dico senza polemica ma lo dico, per rimediare al ricordo banale e riduttivo che i nostri quotidiani hanno fatto di Ribichesu annunciandone la scomparsa. È stato un protagonista e meritava di più e di meglio. Se noi giornalisti per primi non rispettiamo la nostra professione e chi la incarna, non avremo il rispetto dei cittadini.

Il giornalismo è la lotta per il giornalismo. Ribichesu ha lottato in anni terribili: ricordarlo, non solo qui e non solo oggi, dovrà essere per noi più che un dovere.

 

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One Comment

  1. GRAZIE.

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