Giornalismo / Sardegna

Carissimo, caotico, straordinario Giorgio Melis: io me lo ricordo così

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“Devo andare dal dottor Melis”: la frase era sempre questa. E il centralinista, con un sorriso accennato, mi faceva capire che sì, potevo entrare. L’ordine tassativo di fare tappa nel suo ufficio in realtà era arrivato qualche istante prima, quando passato davanti alla sua porta (raramente chiusa) per raggiungere fugacemente la redazione dove attendevano il mio pezzo, Giorgio Melis rispondeva al mio saluto (“Buonasera dottor Melis”) con un segno inequivocabile se era al telefono (ed era quasi sempre al telefono) o con un sorridente “Oh Vito, poi passa qui un attimo”. E al ventunenne collaboratore della Nuova Sardegna di Cagliari non sembrava vero che il vicedirettore volesse parlare proprio con lui.

In realtà, parlava solo lui. Sempre, incessantemente, passando di continuo da un argomento all’altro, mettendo assieme, nell’analisi della realtà che sempre deve precedere un buon pezzo giornalistico, fatti noti e meno noti, episodi vicini e lontani (nello spazio e nel tempo), retroscena, verità dimenticate od occultate, rapporti personali e familiari: nulla sfuggiva a Giorgio quando iniziava a rovistare caoticamente nella realtà, alla ricerca di quello spunto, di quell’analisi che poi sarebbe stata al centro del suo pezzo domenicale. Questo era il suo metodo. In questo modo univa i punti e rendeva visibili le dinamiche del potere, dell’economia, della società in Sardegna. Pezzi perfetti dal punto di vista stilistico: perché Giorgio Melis scriveva in un italiano straordinario: limpido, colto, mai banale, senza alcun cedimento ai quei luoghi comuni che hanno debilitato il nostro giornalismo. Nessuno in Sardegna ha mai scritto in quel modo.

Così, ragionando coraggiosamente sulla realtà isolana e scrivendo magnificamente, Giorgio Melis si era guadagnato un’autorevolezza che non discendeva dai ruoli apicali che era stato chiamato a ricoprire nei giornali: condirettore all’Unione Sarda, vicedirettore alla Nuova Sardegna. Era un giornalista influente: la politica e i poteri forti dell’economia lo temevano, ma soprattutto lo rispettavano. Lo rispettavano come si rispetta un monaco: Giorgio Melis aveva deciso di fare il giornalista e a quello e solo a quello (oltre che alla sua cara famiglia, che tornava spesso nei suoi discorsi e a cui era veramente devoto) aveva consacrato la sua vita. Altro insegnamento in questi tempi funestati da torme di giornalisti senza vocazione.

Dunque Giorgio Melis mi parlava ed io ascoltavo: in realtà mi stava educando alla professione. “Hai letto la notizia su…?”: innanzitutto voleva capire se leggevo i giornali, e quelli sì che li leggevo! La lezione allora poteva proseguire: “Proviamo a chiamare…”. Giorgio si attacca al telefono e sente amici, colleghi, politici, conoscenti. Da questi colloqui emerge un quadro ricchissimo che Giorgio integra, tra una telefonata e l’altra, con le sue conoscenze, regalandomi una specie di storia della Sardegna contemporanea, citando libri (era un uomo colto, capace di letture sorprendenti), episodi, interviste, articoli di giornale.

Ogni telefonata è preceduta da un ragionamento, da una riflessione: mi spiega cosa fa e perché lo fa. Ha un dubbio e chiede al centralinista di chiamargli un giornalista dalla redazione: “Scusa ti ricordi in che anno il presidente della Regione aveva assunto quella famosa delibera su…?”.

Primi anni ’90, internet ancora non esiste, le informazioni vanno conservate nel nostro hard disk chiamato “cervello” oppure in hard disk esterni chiamati “colleghi”, nel peggiore dei casi anche in cartelline in cui si conservano ritagli catalogati per argomento (una follia che ancora oggi mi porto dietro per gran disperazione di chi vive con me). Giorgio intanto davanti a me continua a lavorare, in diretta vedo come funziona la sua testa di giornalista, come associa fatti a persone, notizie a episodi. Ogni tanto mi chiede conferma della correttezza del suo ragionamento, vuole sapere cosa ne pensa il ventenne che ha davanti.

Chiamano da Sassari: è il momento della teleconferenza. Ma si capisce che a Giorgio di questo rito non gliene frega niente, ha la testa altrove, sta pensando alle sue di notizie. Deve scrivere qualcosa, si mette al computer, vedo che il suo volto cambia, la concentrazione è massima, scrive di getto, senza ripensamenti. Una performance mostruosa, rimango a bocca aperta. Pochi minuti le la pratica è liquidata. “Allora, dov’eravamo rimasti?”.

La serata va avanti, è già passata un’ora e Giorgio non ha smesso di parlare. Ormai ha scandagliato tutto lo scandagliabile, la notizia sulla quale sta lavorando è già stata sminuzzata in mille pezzi, non ha omesso neanche di affrontare il lato personale e parentale (altra telefonata: “Ciao caro, come stai? Ti’ndarregordasa di chini fiara fillu…?”, ora parla un casteddaio purissimo, a me familiare), perché un giornalista non può non conoscere i rapporti di sangue spesso alla base di tanti fatti politici. Ed era a questo punto che Giorgio aveva bisogno di collocare la sua notizia in uno scenario nazionale e diceva: “Chiamiamo Giomaria”. E a me scendeva un colpo per l’emozione.

Componeva il numero a voce alta (ieri, per sfida, ho provato a ricordarmelo quel numero e poi a guardare su una vecchia agenda se era quello giusto: era quello giusto) e poi cambiava voce. Per Giovanni Maria Bellu, allora inviato di Repubblica ma che proprio alla Nuova Sardegna di Cagliari aveva iniziato la sua carriera, Giorgio Melis aveva un affetto speciale. Lo si capiva da come gli parlava: la sua voce, sempre cordiale con tutti ma abituata a dare e ricevere informazioni in tempi rapidi, adesso si addolciva, il ritmo non era più concitato, il tono non era più cameratesco, Giorgio Melis non parlava più da vicedirettore, da firma assoluta del giornalismo sardo, ma quasi da fratello maggiore, se non proprio da padre.

Giovanni Maria Bellu era un mito per me e penso per tutti i giovani giornalisti sardi degli anni ’90. Tangentopoli, le stragi di mafia, il berlusconismo nascente: Repubblica raccontava tutto e a scrivere quei pezzi era Giovanni Maria Bellu da Cagliari. Ora c’era lui dall’altra parte del telefono, ed era Giorgio Melis a parlare con lui. Ed ero io lì, seduto, in silenzio, nella stanza al primo piano della sede cagliaritana della Nuova Sardegna, in viale Regina Elena.

Anche la telefonata con Bellu è finita, ormai Giorgio ha tutti gli elementi a disposizione ma li lascia lì, a decantare, e pensa ad altro. “Cosa sta succedendo in redazione?”.

La redazione stava lì, a sinistra oltre la sua porta che dava su un piccolo atrio, regno dei centralinisti, mentre a destra, proprio a ridosso della porta d’ingresso, c’era la stanzetta dei collaboratori: un telefono e un tavolo dove poter scrivere i propri pezzi in casi speciali. Internet ancora non esisteva, i pezzi si mandavano via fax o si dettavano ai centralinisti (che li registravano in uno speciale macchinario chiamato dimafono), oppure si portavano, scritti a macchina su dei fogli intestati “La Nuova Sardegna” in cui erano già predeterminate le righe con le relative battute. Una cosa è certa: il collaboratore doveva stare nella sua stanzetta, per lui la redazione era un luogo proibito. Tra i frequentatori della stanzetta nei primi anni ‘90 ricordo Mario Frongia, Fabio Meloni, Cristiano Cadoni, Giuseppe Corongiu, Jacopo Norfo, Maria Grazia Marilotti e Bruno Ghiglieri (un altro che come me veniva spesso convocato dal dottor Melis).

“Cosa sta succedendo in redazione?” diceva dunque, e senza alzarsi sollevava la cornetta e chiamava Gino Zasso, il responsabile delle pagine di cronaca di Cagliari che stava nella sua postazione a pochi metri da lui. Giorgio Melis era uno straordinario solista che poteva farsi anche tutto il campo palla al piede e segnare, ma Zasso era il suo naturale complemento, umano e professionale. Gino Zasso era quello che in gergo si chiama “uomo-macchina”, smazzava una quantità di notizie poderosa, un centrocampista dai piedi anche fini se è vero che era anche il corrispondente dalla Sardegna del Corriere della Sera. Insomma, i due erano una coppia straordinaria, e dietro il lavoro Giorgio Melis, dietro le sue analisi lucidissime, c’era anche il lavoro di Gino Zasso.

Che persona straordinaria che era Zasso! Maddalenino, corporatura possente, occhi chiari ed espressivi, fare burbero anzichenò, alle tre del pomeriggio era già in redazione (lezione mai dimenticata: chi coordina un gruppo deve esser il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene) e alle cinque attendeva il pezzo del giovane collaboratore. “C’è il dottor Zasso?” chiedevo al centralino. Se non era al telefono, potevo velocemente raggiungere la sua postazione e dargli l’articolo scritto a macchina, che nel mio tragitto dalla mia casa di Villanova o (più avanti, al tempo della mia prima emancipazione, di Castello), avevo febbrilmente letto alla ricerca di eventuali errori.

Zasso da vero capocronista mi liquidava amorevolmente in pochi secondi. “Biolchi’, tutto a posto? Quante righe? Cinquanta? Ok, ciao”. Vivevo questo fare così sbrigativo come una sofferenza, mi aspettavo qualche parola in più: va bene l’articolo? Va bene così? C’è qualcosa da cambiare? Solo più avanti, chiamato anch’io ad un ruolo di direzione e di coordinamento, capii che più un caposervizio stima un suo collaboratore, meno ci perde tempo in chiacchiere. Allora però non lo sapevo, e quindi soffrivo. Così salutavo Zasso ed entravo da Melis.

“Ooooh… ita ora esti? Le sette, vediamo il telegiornale”. Non c’è un modo migliore di imparare il giornalismo che non vedere un giornalista che legge un quotidiano o guarda un tg. Giorgio Melis commenta, integra, spiega: davanti alla vastità dei temi affrontati dal tg3, il giovane collaboratore in questo caso può dire la sua.

Sono passate più di due ore da quando l’aspirante giornalista di ventun anni ha portato le sue cinquanta righe di “bianca” che domani usciranno, titolate e firmate, nelle pagine cagliaritane della Nuova Sardegna (allora ben quattro, oggi non esistono più). Nella redazione è sceso uno strano silenzio. Le visite si diradano, nell’aria adesso risuonano solo le voci metalliche dei collaboratori che dettano ai dimafoni i loro pezzi e il ticchettio delle tastiere. Capisco che devo andare via. In quelle stanze sta nascendo il giornale, un mistero a cui noi collaboratori pagati ottanta lire lorde a riga tipografica non abbiamo accesso.

Giorgio mi congeda con un amichevole “passa quando vuoi”. Gli piacciono i giovani, a differenza di molti suoi colleghi meno capaci, nel rapporto con loro non fa pesare il grado. È generoso, condivide informazioni, analisi, considerazioni, contatti. Mi ha socializzato alla professione in anni in cui sapevo che volevo fare il giornalista ma non sapevo come ci sarei riuscito. Lui mi ha dato coraggio e fiducia. E soprattutto non mi ha mai illuso: da vicedirettore della Nuova non mi ha mai fatto credere che per me si sarebbero potute aprire le porte non dico di una assunzione, ma neanche di una sostituzione. Che grande insegnamento: i giovani non vanno mai presi in giro. mai.

Io non sono un allievo di Giorgio Melis (sono figlio di un’altra epoca ma soprattutto la sua scrittura era inarrivabile per me) ma sicuramente lui è stato uno dei miei maestri. Lui, come Gino Zasso, è stato un esempio a cui io ho potuto guardare per anni, in una fase cruciale della mia crescita umana e professionale. E per questo li voglio ricordare insieme (Gino ci ha lasciati due anni fa) e insieme ringraziarli per quanto mi hanno dato. Quei pomeriggi passati lì alla Nuova Sardegna sono stati fondamentali per me.

Tante lezioni: il giornalismo è scrittura ma anche metodo, analisi rigorosa della realtà, precisione, puntualità, generosità, lavoro di gruppo. Ma anche creatività, inventiva, fantasia. Per Giorgio Melis il giornalismo era anche rigore e onestà intellettuale. La discesa in campo di Berlusconi fece esaltare queste sue doti. Mentre altri svendevano la professione, lui si oppose in maniera chiara e netta al sistema di potere berlusconiano che dilagava in Italia.

Nel 1994, nel giro di una notte l’Unione Sarda dell’editore Nichi Grauso saltò improvvisamente armi e bagagli sul carro di Arcore, licenziò i direttori e mise alla guida del quotidiano un giovane cronista poco più che trentenne, Antonangelo Liori. Melis reagì con veemenza a quello sfregio, commesso soprattutto ai danni di alcuni suoi valorosi ex colleghi. Allora i quotidiani vendevano molto più di oggi, non c’era internet, non c’era facebook, non c’erano altri soggetti a parte i quotidiani e le tv in grado di formare l’opinione pubblica. Vedere l’Unione Sarda, il giornale per il quale aveva lavorato per anni, diventare un foglio di regime, lo portò a dichiarare una guerra totale contro Grauso e contro Liori.

Giorgio Melis si è opposto al sistema di potere berlusconiano in Sardegna, a tutte le sue ramificazioni e seduzioni, in maniera netta, totale, frontale. Si era sempre proclamato lussiano, e adesso con le sue parole di fuoco dimostrava di esserlo realmente.

Io ora potevo dire di conoscerlo meglio. La palestra quasi quotidiana mi era servita ma lo avevo visto anche in campo, nelle sue vesti di condottiero. Ottobre 1993. Sono nella mia stanzetta di Castello, intorno alle 17 ricevo una telefonata: è Zasso. “Cosa stai facendo?, “Sto studiando”. “Che cazzo studiando, vieni subito qui che domani pubblichiamo le liste della massoneria!”.

La città fu scossa dalle fondamenta. Giorgio Melis aveva recuperato le liste dei massoni cagliaritani, e le aveva pubblicate. Il giornale aveva costituito una task force di tre-quattro giornalisti che dovevano ogni giorno approfondire la notizia ed io (finalmente pubblicista da pochi mesi) ero fra questi. Per quattro-cinque giorni ho vissuto in redazione, riunione di mattina, riunione al pomeriggio. Giorgio Melis ora non era per niente caotico ma dimostrava una lucidità di pensiero e di azione straordinarie. Sapeva dove voleva arrivare, ora non passava più da un argomento all’altro ma andava dritto all’obiettivo. In quei giorni la Nuova andava letteralmente a ruba nelle edicole, negli uffici circolavano le fotocopie con la lista dei massoni.

Per me fu una sorta di promozione sul campo. Effimera gloria, ovviamente. Tornai alle mie canoniche quaranta righe di bianca, ma a 23 anni non potevo che essere contento così. Dopo pochi mesi Giorgio mi mise nuovamente alla prova. Aprile 1994, arriva in Sardegna il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. È il 28 aprile, Scalfaro fa una visita lampo a Cagliari, di pomeriggio deve essere a Roma dove molto probabilmente affiderà l’incarico di formare il nuovo governo a Silvio Berlusconi. Il giornale prepara la squadra, per seguire Scalfaro servono tre giornalisti: ”Metti qua i tuoi dati che ti facciamo fare l’accredito dalla prefettura”.

Tutti si attendono dal presidente qualche anticipazione, ma lui non parla. Alla Fiera vedo come si muovono i colleghi dei giornali nazionali, come ragionano, come lavorano.

Scalfaro ha parlato al palazzo dei congressi e risale in macchina per andare in aeroporto. Un amico e collega di Sardegna Uno, Massimiliano Rais, mi dice: “Pare che debba andare a Bonaria, chissà se è vero”. Io non ci penso un attimo e corro al santuario. Troppo tardi, il presidente è appena andato via. Però Radio Bonaria ha registrato tutto, tutta la visita del devotissimo Scalfaro! Mi faccio dare la cassetta e corro in redazione. Alla riunione quasi non ci credono. La notizia di Scalfaro a Bonaria era praticamente sconosciuta a tutti, forse doveva restare segreta. Giorgio chiama Sassari: “Biolchini ha questa notizia di Scalfaro a Bonaria… No, sulle agenzie non c’è niente, ce l’abbiamo solo noi”. Si gira e mi fa l’occhiolino, la sua intuizione di mandare un giovane cronista di strada a seguire il presidente si è rivelata azzeccata. Il giorno dopo la notizia di Scalfaro che prega a Bonaria ce l’ha solo la Nuova, l’Unione si è presa un buco colossale: cose che capitano anche nelle migliori famiglie.

Lo so, non ho mai scritto un post così lungo, è lungo quanto i pezzi di Giorgio per Altravoce, ma non mi interessa.

Ci fu un’altra occasione in cui capii che Giorgio era orgoglioso di me. Nel 1997 iniziai a collaborare per l’Espresso. Devo tutto in questo caso ad un altro giornalista della Nuova Sardegna, Mauro Lissia. Silvia Melis era nelle mani dei rapitori, Mauro doveva passare una settimana fuori dalla Sardegna e mi chiese di tenere i contatti con la redazione romana nel caso fosse successo qualcosa e avessero avuto bisogno di notizie. Così iniziai a scrivere per l’Espresso. Prima alcune note non firmate nella rubrica Riservato, poi il mio nome uscì insieme a quello dei loro giornalisti inviati in Sardegna a raccontare le peripezie di Grauso e Liori.

Finalmente arrivò il giorno del primo pezzo formato solo da me. Argomento: Antonangelo Liori. Sul tema era abbastanza ferrato e scrissi un pezzo ineccepibile e inattaccabile. Prima di inviarlo a Roma, lo lascio al dottor Melis (gli davo sempre del lei) perché mi desse il suo parere e me ne vado. Torno il giorno dopo e lo trovo che al telefono sta leggendo tutto contento quello che ho scritto non so a chi. “Il pezzo va bene, va molto bene” mi disse con quel tono sbrigativo che usava quando capiva di avere raggiunto l’obiettivo. Ero felice.

Quel pezzo però non fu mai pubblicato mai. Un fatto improvviso e grave lo fece “saltare”. Il giornale veniva “chiuso” il giovedì, e il mercoledì (era il 9 settembre 1998) morì nientemeno che Lucio Battisti. Al posto delle gesta di Liori Antonangelo nato a Desulo l’Espresso non poteva che destinare in fretta e furia due pagine commemorative al grande cantante. Andò così, e non saprò mai se è stato un bene o un male.

Poi io iniziai a lavorare a Radio Press, poi a Tiscali, poi a Sardegna Uno, poi di nuovo a Radio Press e con Giorgio ci perdemmo di vista. Rischiammo di lavorare assieme al Giornale di Sardegna dove assunse l’incarico di direttore editoriale ma Grauso (con il quale Giorgio aveva avuto memorabili scontri) non si fidava troppo di quel giovane cronista che aveva osato scrivergli contro sui giornali nazionali.

La sua esperienza con il Giornale di Sardegna finì male. Un giorno salendo per via Barcellona, lo incontro fuori da una tipografia: stava per dare alle stampe un numero speciale in cui sputtanava la gestione del quotidiano. Quella copia la devo avere ancora conservata da qualche parte.

Ci incontrammo nuovamente nel 2006 quando aprì il giornale l’Altravoce. Facevo parte del gruppo iniziale e posso dire di non aver condiviso lo spirito di quell’operazione editoriale che nasceva su un’analisi politica a mio avviso errata. Mi costava prendere le distanze da lui, ma nella vita per crescere bisogna prendere le distanze dai padri e io l’ho fatto.

Ci perdiamo ancora di vista, ci incontriamo un giorno per caso in piazzetta Savoia, era già malato. Cordialità.

Ottobre 2013, squilla il cellulare, il numero mi è familiare, lo conosco, ma ricordo di chi possa essere. “Sono Giorgio Melis”. Vuole propormi un pezzo per il mio blog. “L’ho scritto di getto ma con fatica perché sto male”. Sarà il suo penultimo mai scritto: “Il Pci, Emanuele Sanna, Piersandro Scano, Luigi Pintor, Enrico Montaldo e la massoneria”.

Scambio di mail: “Mi ha fatto piacere ritrovarti, dopo anni di lontananza varia, forse di dissenso non manifestato per rispetto di un collega vecchio ma non troppo: nello spirito, almeno”.

Restiamo in contatto via wazzup ed sms. Riesce ad ironizzare sulla sua malattia, io provo a tirarlo su, ci diamo del tu adesso. Mi gira mail e sms di fuoco rivolti a noti politici e a noti giornali, meraviglie di durezza e fantasia, roba da antologia. Mi parla estasiato della nipotina di nove anni, gli dico della mia Emma che di anni ne ha sette, “i bambini sono la cosa migliore di un mondo che non li merita e li mette a rischio, per loro qualunque battaglia allo spasimo è sempre troppo poco”.

Gli chiedo come sta, mi dice “si resiste col mio amico e persecutore col punteruolo nel costato destro (fascista, ovvio)”. Si firma GSOG, ovvero God Save Old George.

Gli scrivo una mail per ringraziarlo del regalo che mi ha fatto, un suo articolo per il mio blog, e mi risponde: “Caro Vito, bella lettera e per me importante. Ti risponderò appena sto meglio e con piacere perché ti ho sempre stimato fin da piccolino anche per la tua intransigenza morale anche quando dissentivo”.

Ci scambiamo altri sms, lo incoraggio a non mollare, lui fa lo stesso con me. Altri messaggi, altre considerazioni amare sulla politica in Sardegna. A Natale ci scambiamo gli auguri.

Domenica Giorgio Melis ci ha lasciato. Aveva 76 anni. Il modo con cui ha affrontato la malattia è stato l’ennesimo insegnamento che ci ha dato.

Penso che ora sarebbe opportuno raccogliere tutti i suoi articoli, sarebbe un giusto omaggio al suo lavoro e alla storia del giornalismo in Sardegna.

Quella che vi ho raccontato è la storia del mio rapporto con lui. Non sono stato l’unico ad avere il privilegio di conoscerlo, altri giovani hanno beneficiato come me della sua amicizia, delle sue attenzioni e dei suoi consigli. E tutti potranno confermare quello che ho scritto.

Ora so che dovrei una frase importante per congedarmi da voi e da lui, ma non la trovo. Anzi sì: sono felice ed orgoglioso di averlo conosciuto. E alla famiglia dico questo: vi amava quanto amava il giornalismo. Alla follia.

Ciao Giorgio, grazie di tutto. Saperti col tuo grande amico Gino Zasso a ridere di tutto e di noi è l’unico conforto che mi arriva in un momento così triste.

 

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24 Comments

  1. Giorgio says:

    Un po’ di autocompiacimento di troppo però va bene.. bel ricordo. Giorgio del resto era il mio giornalista sardo preferito, al pari di Giacomo Mameli e Giorgio Pisano (anzi un gradino più su).

  2. Massimo Moi says:

    Che ricordo straordinario Vito.
    Sono spiazzato, ti confesso.
    E non è solo commozione quella che provo, ma anche un po’ di amarezza, perché in fondo avremmo bisogno di ricostruire tante grandi storie come questa qui in Sardegna, con la stessa passione che ci hai messo tu con Giorgio Melis. Storie che troppe volte, soprattutto negli ultimi 15 anni, restano mute (piccoli e grandi eroi), senza qualcuno che le racconti, che le approfondisca, e non solo giornalisticamente, o con un editoriale che si consuma in fretta, ma come si faceva un tempo, mettendo insieme ricordi personali, piccole leggende, pezzi di vita.
    Non so, ma io continuo a credere che avremmo bisogno di un po’ più di memoria per ritrovarci, e forse un po’ meno di innovazione. Almeno, per provare a leggere con più chiarezza quello che ci capita attorno. E di memoria se ne trova sempre troppo poca in giro, è quasi una merce rara. Specie nel giornalismo. Ecco perché l’amarezza: perché la militanza di chi vuole ricordare uomini e vite legati alla nostra Isola (come hai fatto tu con Melis), con rigore e lucidità, potrebbe sostituire tanti fragili esercizi di retorica che purtroppo dilagano nella carta stampata e nell’editoria attuale.
    Perdonami, forse è fuori luogo questa riflessione, ma è una finestra che mi ha aperto la lettura del tuo pezzo, e le emozioni che c’erano dentro.
    Grazie Vito.

  3. Gianfranco Fancello says:

    Complimenti Vito.
    Un pezzo scritto con il cuore, che sa di piombo di tipografia e fumo di redazione. Hai reso Giorgio Melis familiare anche a chi, come me, non l’ha conosciuto ma ne ha sempre apprezzato stile, contenuti e schiena eretta.

  4. Vitelio says:

    Ho letto questo tuo post tutto d’un fiato. Straordinario. Leggendolo ho avuto l’impressione di vivere pezzi di storia del giornalismo sardo (e credo sia proprio così). I brividi. Complimenti.

  5. Mi ha fatto tanto piacere leggere il tuo scritto. Con una certa commozione, anche se tu non l’hai cercata. Io gli devo solo una esperienza umana, sincera, e la porterò nei miei ricordi, insieme al dolore per la scomparsa di una grande personalità. Grazie, a lui, e anche a te.

  6. Patrizia says:

    Commovente il ricordo umano e professionale che hai fatto di lui.

  7. Massimo says:

    Gran bel pezzo, grazie Vito.

  8. Grazie Vito. Avrei voluto non finisse mai

  9. Antonio says:

    Buongiorno, la lettura di questo toccante ricordo di Giorgio Melis ha suscitato in me diversi sentimenti. Il rammarico di non aver beneficiato della lettura dei pezzi del grande giornalista, che ho avuto modo di seguire solamente attraverso la televisione (mi pare che negli anni novanta conducesse un programma in un’emittente regionale). La malinconia, riflettendo sulla profonda ed approfondita descrizione da parte dell’Autore del professionista e della persona Giorgio Melis, nel constatare una volta di più l’assenza quasi totale ormai di maestri che sappiano trasmettere non solo la propria arte, ma soprattutto la propria cifra umana. E questo vale un pò per tutte le professioni, non solo nel giornalismo. Ovviamente con le dovute eccezioni. Infine, l’Autore mi perdonerà, un pizzico (anzi, confesso, molta) di invidia per aver avuto il privilegio di conoscere, di apprendere e di lavorare con una persona di tale valore. Saluti

  10. andrea says:

    Per un articolo di Vito Biolchini mi era capitato di condividere, apprezzare, riflettere, dissentire. Non mi era ancora capitato di commuovermi.

  11. Grazie. Davvero. Per scrivere e pubblicare un ricordo emotivamente autentico ci vuole coraggio, perchè si è esposti in ciò che si sente profondamente e la cosa si sente dalla prima all’ultima riga.
    Grazie anche per avermi fatto “vivere” delle cose di un mondo che non ho mai conosciuto se non “da fuori” e che ho sempre immaginato, ma aggiungendovi una componente emotiva e personale che emoziona a sua volta.
    Ho sempre pensato che questa sia una professione che non si può imparare sui libri, e trovare dei “padri”, un mentore, o anche solo dei compagni di percorso dai quali imparare sia un’immensa fortuna.
    Il tuo ricordo di Giorgio Melis me l’ha confermato.
    E anche per questo mi sento di ringraziarti sinceramente.

  12. Aspettavo questo pezzo, i ricordi non hanno mai fretta per la paura di giungere in ritardo, perché devono sopravvivere al tempo. (Mario S.)

  13. Giuseppe says:

    Neanche una riga sull’edizione online dell’unione. So che non è affatto incredibile, ma mi pare comunque inconcepibile

  14. Marco Bittau says:

    Grazie per il ricordo di Giorgio. Ho letto con piacere e ho rivisto scorrere una parte importante della mia vita. Da frequentatore di quelle stanze cagliaritane, oggi posso dire che si è chiusa davvero una stagione esaltante. Per l’informazione in Sardegna e per tanti giovani che in quegli anni hanno viaggiato nell’orbita di quel pianeta fascinoso e così tanto desiderato. Devo a Giorgio la mia fortuna e posso dirlo ad alta voce, con l’orgoglio e la saggezza di chi ha conosciuto un giornalista straordinario e ha avuto il privilegio di lavorare con lui.
    Marco Bittau

  15. Caro Vito, che bello ! Ho interrotto il mio pezzo settimanale su America Oggi, quando nel computer è comparso il pop out del tuo blog e non ho resistito dal leggere il tuo lunghissimo e bellissimo post. Potenza del web e dei social network che in alcuni casi ci permettono di dilungarci senza l’assillo del numero di righe e di battute. Grazie, grazie per questo tuo bel ricordo che mi ha riportato e fatto rivivere quegli anni gloriosi del giornalismo sardo e i miei venti anni precedenti di reporter o meglio di ‘giornalista collaboratore ‘ nella Cagliari dell’Unione e della Nuova, di Videolina e Sardegna 1 di Radiolina e Radio 24 ore, che poi alla fine diventavano quasi come un’unica famiglia anche se ci giocavamo il derby. Anche io ho conosciuto ed apprezzato tantissimo sia Giorgio Melis che Gino Zasso. Con Gino avevo confidenza e ci davamo del tu perchè al Sant’Elia ci siedavamo spesso vicino alle partite del Cagliari quando facevo il corrispondente del Messaggero di Roma, del Mattino di Napoli e del guerin Sportivo (fine anni ’70 inizio anni ’80) e mi ha aiutato sempre poi, negli anni ’90 quando da ‘event organizer’ avevo bisogno di far pubblicare qualcosa su Chia Classic o il Sardinia international o il Cagliari Grand Prix (le gare ed eventi che organizzavo). Era una sorta di fratello maggiore. Con Giorgio Melis non avevo invece mai avuto confidenza ma condivido con te l’eccellenza dei suoi articoli-grattugia assolutamente ineguagliabili. Ero troppo piccolo e lui inavvicinabile ai tempi delle mie prime collaborazioni con l’Unione e l’ho scoperto, conosciuto e letto solo dopo, di recente, nel nuovo millennio con l’Altra Voce e Sardinia Post. Si, uomini speciali, giornalisti speciali, come lo sei diventato tu che non ti pieghi e non ti spiezzi anche quando vorrebbero affossarti perchè racconti verità scomode. Ora guardo l’Hudson River dalla mia stanza a Manhattan e lascio la rubrica ‘Back Stage’ di America Oggi perchè mi hai dato l’ispirazione sul capitolo sardo del libro autobiografico che voglio scrivere “Mc Porc inviato molto speciale “. Cind’è cos’e contai…lo vedi che non sono avaro di notizie ? Aloha & a si biri

  16. Supresidenti says:

    Ci ho parlato una volta ma chissà quante volte ho letto un suo articolo. In casa si leggeva “la nuova”, io ero ragazzino e mi sembra di ricordare anche un tuo pezzo in prima pagina (o ricordo male?). Hai scritto delle belle cose Vito, e le ho lette con piacere. A si biri.

    • No, in prima pagina sulla Nuova mai. Forse il richiamo di qualche pezzo sì, ma in prima pagina nella mia vita mi è capitato solo di scrivere sull’Unità (pre Soru, è il caso di precisare!)

      • Massimo says:

        Io ricordo l’Ugnone! Possibile? Ricordo male o era un richiamo ad un pezzo del blog? 🙂

  17. Nelle parole si sente il racconto vitale dell’esperienza di avere vicino un uomo come lui, e avendo avuto la fortuna di lavorarci per un periodo (troppo breve) a L’altra voce, riconosco ogni cosa.

  18. Gianni Campus says:

    Lo incontravo a Messa.
    Quando uscivamo, ci scambiavamo due parole; le mogli , pazientemente, aspettavano la fine di quel chiacchierare allusivo, iniziatico.
    Immancabilmente, mi parlava di mio padre: mi piace pensare che si siano ritrovati, e che si siano messi al corrente…
    Addio, amico mio
    Gianni Campus

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