Immagine tratta dal sito labuonascuola.gov.it
Il filosofo Silvano Tagliagambe è uno dei massimi esperti di scuola in Italia. Questo suo intervento è un bellissimo regalo ai lettori del blog, un prezioso contributo al dibattito sull’istruzione nel nostro paese.
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Ha ragione la professoressa Silvana Mulas (nel suo post dal titolo “Sulla scuola il governo Renzi preferisce le cerimonie osannanti alle voci critiche”, ndr) a sollecitare un dibattito sulla scuola reale e sul progetto del governo Renzi di “Buona Scuola” al di là di ogni forma di acritica e più o meno interessata adesione.
Comincio dalle cose positive che indubbiamente ci sono nel progetto e vanno onestamente riconosciute e che provo a riassumere.
Sul piano didattico:
- Insegnamento pratico della musica a partire dalle scuole primarie;
- rafforzamento ed estensione dell’insegnamento della Storia dell’arte;
- attenzione all’educazione del corpo e a quella motoria;
- insegnamento di una lingua straniera fin dalla scuola dell’infanzia e incremento dell’insegnamento di discipline non linguistiche in lingua straniera, secondo il metodo CLIL;
- dovuto interesse per l’alfabetizzazione digitale e la capacità di programmare;
- introduzione dell’insegnamento dell’informatica in ogni indirizzo scolastico;
- impegno per assicurare agli studenti delle scuole secondarie di II grado la comprensione dei meccanismi economici e finanziari;
- estensione della possibilità di scelta di discipline opzionali da parte delle scuole.
Sul piano organizzativo:
- Avvio della trasformazione dell’organico funzionale in organico di diritto, con una quota di 60 mila docenti della classi di concorso dell’infanzia e della scuola primaria e di 20 mila della scuola secondaria assunti in posizione funzionale, in quello che un tempo era stato definito come “organico dell’autonomia”, che può aggiungersi all’organico di fatto e può servire alla scuola per ampliare l’offerta formativa, sostituire i docenti e puntare a eliminare via via le supplenze e avere un pool di insegnanti a disposizione delle reti di scuole. Se le promesse saranno mantenute ci si potrà così muovere in direzione di una integrazione orizzontale tra reti di scuole che condividono i docenti dell’organico funzionale, con possibilità di elaborare e realizzare progetti comuni, e di una integrazione verticale mirata, finalmente, ad affrontare gli snodi dei passaggi da un ciclo scolastico all’altro, soprattutto dalla scuola secondaria di I grado a quella secondaria di II grado, che è uno dei più dolenti nodi critici del nostro sistema scolastico, e ad avviare una seria e concreta politica di orientamento.
Personalmente ritengo positivo anche tutto il capitolo, controverso e spesso al centro di non immotivate preoccupazioni del mondo della scuola, relativo al rapporto con il mondo del lavoro e delle professioni. Non soltanto ai fini del rafforzamento del “saper fare”, su cui concentra la propria attenzione in modo presso che esclusivo il progetto del Governo, quanto per l’indubbia, autonoma convergenza del mondo del lavoro verso alcune delle finalità specifiche e caratterizzanti del mondo della scuola, come dimostra il fatto che il primo tende sempre più a fare propri, dall’interno, orientamenti, indirizzi, valori, scopi da sempre costitutivi del sistema scolastico.
Non intendo riferirmi ai generici (e troppo spesso retorici) richiami alla “società della conoscenza” e ai suoi principi base, bensì a fatti e dati concreti, come la nascita e il rafforzamento di una nuova classe, quella dei “creativi” che, come risultava già dai dati del censimento della fine del secolo scorso, negli Stati Uniti rappresentava già allora il 30% della popolazione attiva. Il cuore di queste professioni, che ormai si sono affermate e diffuse in tutte le società avanzate, è costituito dai lavori in informatica, ingegneria, architettura, formazione, design, comunicazione, intrattenimento ecc.: ed esse hanno come tratti in comune la produzione di informazioni e idee, e non di prodotti fisici, e il fatto che il valore della prestazione è determinato soprattutto dal grado di innovazione e di originalità, e solo in misura minima dal tempo impegnato.
Il loro emergere e consolidarsi è quindi il risultato della capacità di far convergere il capitale intellettuale, e cioè la produzione di conoscenza e innovazione, e il capitale sociale, vale a dire l’abilità nel catturare quella che è l’autentica risorsa scarsa del mercato globale, cioè l’attenzione delle persone, creando un nuovo senso comune.
Se inserite in questo quadro, fatte oggetto di un’autentica progettualità sul piano metodologico e didattico e, soprattutto, accompagnate e supportate da un effettivo potenziamento dell’attività laboratoriale in tutte le scuole secondarie superiori (che esige però non belle parole, ma fatti concreti in termini di dotazioni straordinarie di risorse finanziarie e umane) misure come l’alternanza scuola-lavoro, l’apprendistato sperimentale, l’impresa didattica possono contribuire a colmare almeno in qualche misura l’attuale disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare e ciò che i processi dell’istruzione e della formazione effettivamente offrono.
Infine non si può non condividere il proposito di ridurre la burocrazia e il “mondo di carta” che sta soffocando i nostri istituti, monopolizzando gran parte delle energie e del tempo dei dirigenti scolastici, degli insegnanti e del personale amministrativo, vero e proprio spreco di risorse preziose, che andrebbero utilizzate altrove e ben altrimenti, attraverso la ricognizione dettagliata, con l’ausilio di tutti coloro che operano all’interno del mondo scolastico, delle “100 misure più fastidiose, vincolanti e inutili che l’amministrazione scolastica ha adottato nel corso dei decenni”, provvedendo finalmente ad abrogarle. Finalmente una sana e doverosa autocritica di ciò che si è fatto nel recente passato e purtroppo si sta ancora facendo!
Tutto bene, dunque? Promosso a pieni voti il progetto “Buona Scuola”? No, nient’affatto, perché manca, a mio giudizio, la pietra d’angolo, quella destinata a sorreggere idealmente l’intero edificio, quel sostegno di cui parla, con la consueta lucidità e profondità, Italo Calvino nelle sue Città invisibili:
“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?- chiede Kublai Kan.
Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco” [1].
Vale la pena di integrare questo riferimento alla linea dell’arco e alla sua importanza con la bellissima definizione che dell’arco e della sua struttura fornisce Leonardo da Vinci.
“Arco non è altro che una fortezza causata da due debolezze, imperò che l’arco negli edifizi è composto di 2 parti di circulo, i quali quarti circoli, ciascuno debolissimo per sé, desidera cadere, e opponendosi alla ruina dell’altro, le due debolezze si convertano in unica fortezza” [2].
Queste due citazioni convergono nel dirci che, vanno bene e sono certamente insostituibili le singole pietre, ma se non è la linea dell’arco, cioè una struttura che le sostenga, l’insieme delle pietre è solo una delle due debolezze alle quali si riferisce Leonardo; così come, ovviamente, la sola linea dell’arco senza le pietre non sosterrebbe un bel nulla.
Ora il piano “La Buona Scuola” elenca e classifica, una a una, le pietre, quelle sulle quali abbiamo fin qui concentrato la nostra attenzione, seguendo gli indirizzi del progetto governativo, ma non parla della linea dell’arco, della struttura, del disegno complessivo, della visione della scuola, della sua funzione nella società contemporanea, di ciò che essa deve fare per formare la testa del citatissimo aforisma di Montaigne “È meglio una testa ben fatta che una testa piena”, ripreso da Morin [3].
Per far fronte alle esigenze del mondo contemporaneo questa testa ben fatta dovrà essere capace di esprimere uno stile di pensiero:
- fluido. I confini fra i diversi campi del sapere e le diverse discipline devono essere permeabili, in modo da poter essere attraversati ogni volta che occorre;
- vario. I tradizionali modi di vedere, basati sull’uniformità, la ripetitività e la standardizzazione, si rivelano sempre meno efficaci, dato che ciò che si richiede è ormai una grande varietà di competenze specialistiche declinate in modi spesso inediti. Ci sono infatti ben pochi compiti ripetitivi svolti in ambienti stabili e si profilano, al contrario, sempre nuove attività da svolgere in ambienti incerti;
- flessibile. Viene richiesta una grande flessibilità orizzontale e verticale: all’interno di un team e di un’équipe caratterizzata, come ormai accade sempre più spesso, dalla presenza e dalla cooperazione di specialisti di diversa estrazione disciplinare e culturale diventa essenziale capire e gestire le interazioni e le relazioni sociali per la negoziazione e la cooperazione. È fondamentale saper venire a capo dei conflitti e controllare le emozioni in modo efficace e coerente;
- capace di passare dal pensare in modo verticale al pensare in modo orizzontale. Pensare in modo verticale significa spesso chiedersi chi controlla un certo sistema, non qual è il risultato e l’effetto che si vuole ottenere. Pensare in modo orizzontale vuol dire porsi, come obiettivo, la migliore analisi possibile in tempo reale, e il modo per raggiungerlo è connettere orizzontalmente i vari nodi della rete di cui si dispone. All’interno delle aziende dove si progetta e si lavora in modo sistemico i dipendenti parlano senza sosta di “collaborazione in profondità”, “impollinazione incrociata” e “progettazione parallela”. Ciò significa che i prodotti non passano da una squadra all’altra né attraverso fasi di sviluppo sequenziali e separate, ma piuttosto simultanee e che vengono elaborati in parallelo da tutti i reparti nello stesso momento – progettazione, hardware e software – in infinite sedute di revisione interdisciplinare del progetto. Questo mutamento di stile organizzativo e produttivo sta a indicare che, quando gli obiettivi sono complessi, lo sviluppo di un prodotto deve avvenire in modo molto più collaborativo e integrato: in orizzontale, appunto, e non in verticale. Il modo di pensare e di agire deve adeguarsi a questo cambiamento;
- caratterizzato da integrazione e di visione. Per pensare e lavorare con un approccio del tipo di quello sommariamente descritto e all’interno di un team eterogeneo non basta conoscere bene il proprio ambito disciplinare e sapere fare bene il proprio mestiere. Occorre possedere una visione e disporre di quelli che possiamo chiamare i “linguaggi della mediazione”, gli unici strumenti di cui disponiamo per uscire dalla logica di specialismi rigidamente chiusi in se stessi e garantire un minimo di interazione e di scambio dialogico tra soggetti portatori di istanze, prospettive, esigenze e valori diversi.
Come si costruisce una testa di questo genere? Non certo accatastando e accumulando pietre su pietre, per proseguire sulla linea della metafora di Calvino, cioè per sommatoria come fa il progetto che stiamo esaminando, bensì preoccupandosi della “linea dell’arco”, vale a dire procedendo per intersezione e per incastro, organizzando e mettendo in pratica processi formativi basati sul confronto tra prospettive diverse e sperimentando strategie di interazione complesse mirate a garantire l’effettiva a padronanza della “teoria del ragionamento”. Questo, oltre al sapere disciplinare e ai relativi contenuti e alle conoscenze specifiche, è l’obiettivo da porsi e di cui non c’è traccia nella “Buona Scuola” di cui parla il Governo.
Si tratta di un crocevia di discipline in parte di antichissima tradizione, in parte originate dai molteplici stimoli provenienti dalla società odierna (la logica, la teoria dell’argomentazione, il critical thinking, la comunicazione, la riflessione sui rapporti e sulle differenze tra persuasione e convinzione e sulle strategie persuasive nella politica, nella pubblicità e nel marketing). Questa padronanza è alla base dell’elasticità di pensiero e di capacità più sofisticate e complesse, quali quelle di problem solving, di inquadramento corretto di un problema e di individuazione degli strumenti e risorse necessari per affrontarlo e risolverlo, di project management, di auto-programmazione.
Se non riesce a formare tutto questo con contenuti adatti e con didattiche e metodologie appositamente predisposte ed applicate capillarmente in tutti i luoghi dell’istruzione di ogni ordine e grado, come si usa dire in burocratese, la scuola, anche se raggiunge le finalità e i traguardi, pur ambiziosi e significativi, di cui parlano il Presidente del Consiglio e il Ministro della Pubblica istruzione, non può essere considerata “buona”.
Perché nella nostra vita quotidiana facciamo un uso essenziale ed esplicito di ragionamenti quando dobbiamo risolvere problemi importanti, si tratti di problemi pratici relativi a decisioni che influenzano significativamente la nostra vita oppure di problemi teorici che hanno a che vedere con la nostra conoscenza del mondo fisico e sociale. Ne consegue che coltivare le capacità intellettuali richieste per inquadrare correttamente e risolvere un problema non è una virtù per una ristretta élite di pensatori, bensì una necessità per tutti coloro che non vogliano rinunciare a esercitare un controllo critico sulle decisioni importanti che li riguardano.
Si tratta, inoltre, di un imperativo morale per quanti – giudici, politici, amministratori, manager e via elencando – si trovino nella scomoda posizione di dover prendere decisioni importanti che riguardano gli altri. Così, il possesso e il controllo critico della “cassetta degli attrezzi“ di cui si serve e si giova la nostra mente per ragionare e la sua diffusione capillare, in modo da renderla accessibile a tutti, è essenzialmente una questione di democrazia – di quella democrazia di cui troppo si parla e troppo raramente ci si cura di stimolare e praticare in concreto – in quanto investe la possibilità dei cittadini di comprendere e controllare i processi decisionali dai quali dipende il loro benessere e la loro stessa vita.
Silvano Tagliagambe
[1] I Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1979, p. 89.
[2] Leonardo da Vinci, MSS, Institu de France, Paris, 50r, ‘Frammenti sull’architettura’ (1490), Scritti rinascimentali di architettura, a cura di A. Bruschi, Edizioni il Polifilo, Milano, 1978, p. 292.
[3] E. Morin, La Tête bien faite. Penser la réforme, reformer la pensée, Seuil, Paris. 1999. I edizione italiana Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 15.
Come sempre, il prof. Tagliagambe ci mette a disposizione un prezioso distillato della sua grande cultura, della sua pluridecennale esperienza di docente e della sua profonda conoscenza relativamente alle questioni epistemologiche, didattiche e anche “organizzative” che attraversano la scuola, i saperi, i processi di apprendimento.
Non altrettanto profonde mi paiono la sensibilità e la consapevolezza di cosa c’è dietro ai processi ( e non solo ai prodotti) dell’insegnamento che rivelano invece gli estensori del testo “La Buona scuola”. Forse servirebbe anche chiarire chi siano costoro. Chi opera nella scuola potrebbe pensare che per redigere questo documento ci si sia avvalsi della riflessione e dell’esperienza di studiosi esperti delle tematiche legate alla scuola, e che magari si siano coinvolte anche le associazioni che si occupano di questi temi(CIDI, MCE, LEND, PROTEO, GISCEL ecc. ecc.) . Neanche per sogno! Così come per la “riforma del Senato” non si sono voluti professoroni , allo stesso modo non si vogliono professori a parlare di scuola. E chi, allora?
Gli estensori de “La Buona Scuola” sono Francesco Luccisano (capo della Segreteria Tecnica del MIUR ha lavorato al Ministero degli Affari Esteri, per Enel e per Confindustria ed è stato membro dell’Ufficio per il G8 della Presidenza del Consiglio dei Ministri) e Alessandro Fusacchia, capo di gabinetto del Ministro ( già Consigliere per la diplomazia economica del Ministro degli Affari Esteri, membro dell’Ufficio per il G8 della Presidenza del Consiglio dei Ministri e che ha ricoperto tanti altri incarichi, tutti estranei al mondo della scuola) . Come si vede, entrambi vantano un curriculum con competenze che denotano conoscenza e pratica del mondo dell’impresa e dell’economia più che della scuola, della didattica, delle problematiche relative all’insegnamento e all’apprendimento.
Fatta questa premessa, vorrei esprimere alcune considerazioni in merito al testo in questione.
Delle 136 pagine che compongono il documento, ciò che ha suscitato immediatamente grande risonanza al momento della sua pubblicazione è la notizia dell’assunzione in ruolo, entro il 1° settembre 2015, di 150 mila precari. Ma anche se a questo tema sono dedicate ben 31 delle 136 pagine de La buona scuola, non è questo l’aspetto centrale. Questo provvedimento, tra l’altro, non è certo dovuto alla sensibilità tanto esibita da Renzi per il precariato ( vi ricordate Marta?) ma alla necessità di sanare le violazioni alla normativa sulle assunzioni a tempo determinato che possono costare all’Italia una forte sanzione da parte della Corte di giustizia europea, sanzione ancora più pesante dell’intero “investimento” sui precari .
I punti nodali, quelli che davvero possono trasformare la scuola, a mio parere sono altri. Ne propongo la discussione.
1. LA SCUOLA AZIENDA.
Qual è l’idea di scuola che c’è dietro la Buona scuola di Renzi?
Non una scuola che si occupi dell’educazione e della formazione di bambini e ragazzi affinché costruiscano le competenze di cittadinanza, che sono competenze di autonomia, di capacità di scelta e di deliberazione, competenze sociali, culturali e non solo ma anche professionali.
Nel testo si parla di studenti come futuri lavoratori ed è in questo senso che si ripropone qui quel sistema duale che insegnanti e studenti hanno contestato quando a proporre questi stessi progetti erano state le ministre Moratti e Gelmini. Ancora una volta, si pensa ad un sistema che vede da una parte il Liceo e dall’altra l’Istruzione Tecnica e Professionale come due prospettive di lavoro e di vita da assumere a partire dalla distinzione tra chi è nato per pensare e chi per lavorare con le mani.
Il capitolo 5, in particolare, si occupa del raccordo tra “gli SCOPI e i METODI della scuola e quelli del mondo del lavoro e dell’impresa” ( pag. 104 ).
L’attività pratica ha sicuramente una valenza formativa ma ne va salvaguardata l’intenzionalità educativa che può essere garantita solo dalla scuola. L’Alternanza scuola – lavoro può rappresentare una particolare modalità di apprendimento, basata sull’imparare facendo. Ma la progettazione e la gestione dell’esperienza di Alternanza è e deve restare della scuola, del Collegio dei docenti e dei consigli di classe, non dell’azienda.
2. IL GOVERNO DELLA SCUOLA CHE PREVEDE TUTTO IL POTERE AI DIRIGENTI
A questo tema è dedicato il cap. 3.3 dal titolo: LA BUONA GOVERNANCE
Tutto il potere si concentra sui Dirigenti Scolastici (qui ancora chiamati Presidi) e si precisa che “collegialità non può essere sinonimo di immobilismo , di veto, di impossibilità di decidere alcunché ”(pag.71). Sembra di sentire l’eco di uno dei cardini del metodo e del pensiero di Renzi : imbavagliare qualunque dibattito, dire di ascoltare tutti ma poi decidere da solo, tagliar corto, “porre la fiducia” per evitare lungaggini e veti del Parlamento ecc.
Chi ha scritto questo testo davvero non sa cosa succede nelle scuole: in tutti gli Organi Collegiali si discute sulla base di un ordine del giorno e dopo la discussione di ogni punto si vota e si delibera.
Accade così nei Consigli di classe, negli Organi disciplinari, nel Collegio dei docenti, nel Consiglio d’istituto. Il punto è che prima di votare si discute e ci si confronta. E si osa perfino discutere e mettere in minoranza ( se è il caso) anche le proposte del Dirigente Scolastico.
La scuola pubblica è aperta, libera, democratica ma non è anarchica e inconcludente come si vuole far intendere in questo documento.
La scuola è un luogo che ha tra le sue finalità quella di aiutare gli alunni a sviluppare lo spirito critico, la capacità di discernere. La scuola non può diventare un luogo di esercizio dell’autoritarismo e delle decisioni nelle mani di uno solo: negherebbe se stessa.
Nel progetto di Renzi, invece, si vuole ridisegnare la scuola secondo un modello a forte gerarchizzazione interna dove si possa esercitare non un ruolo di Direzione autorevole e competente ( necessaria come in un qualunque sistema complesso ) ma una vera e propria funzione di COMANDO autoritario affinché la scuola possa essere più funzionale agli scopi ( quelli dell’impresa e dell’economia ma anche di una politica populista).
Uno degli assi portanti del potere dell’uomo solo al comando della scuola è rappresentato dal REGISTRO NAZIONALE DEI DOCENTI che diventa una vera e propria “vetrina del docente” che si offre sul mercato. Il testo sottolinea che il Dirigente deve “poter schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”. Il linguaggio calcistico si può così decodificare: il Dirigente deve poter chiamare (per chiamata diretta e non per graduatoria stilata sulla base di titoli, concorsi e altre vetuste sciocchezze) i docenti che , a suo insindacabile giudizio, appaiano più adatti per realizzare il Piano dell’Offerta Formativa.
Lascio immaginare a chi legge cosa potrebbe succedere in un Paese trasparente e al di sopra di qualunque sospetto di corruzione qual è il nostro, con un potere del genere in mano al dirigente scolastico.
Riesco già a vedere il conformismo, l’opportunismo, la piaggeria, la rinuncia a sostenere il proprio punto di vista che finirebbero per annientare la vitalità e la dialettica ( che sono alcune delle cose belle che fanno libera, aperta, plurale la scuola pubblica ).
3. LA MERITOCRAZIA O VALUTAZIONE SUL MERITO
La valutazione è uno dei momenti portanti della scuola e gli insegnanti valutano i processi di apprendimento e le competenze costruite dagli alunni. Qualcuno si chiederà “ ma questi insegnanti che passano la vita a dare voti, perché non vogliono essere valutati nel loro lavoro?
Vorrei subito sgombrare il campo da dubbi e chiarire che non avrei niente contro una valutazione del sistema scuola. Il punto è che non è chiaro chi valuta, con quali obiettivi e finalità, secondo quali parametri e criteri, con quali competenze da parte del valutatore, con quali garanzie di “oggettività” e trasparenza.
( Quanto sia difficile e complessa la questione della valutazione è noto. L’unico strumento finora messo in campo nella scuola riguarda la valutazione degli apprendimenti, attraverso le prove INVALSI.
Come si sa, questo tipo di prove sono molto contestate all’interno della scuola in quanto prescindono dalle diverse situazioni reali e concrete in cui le singole scuole d’Italia si vengono a trovare e operano.
Diversa è la situazione di un Liceo o di un Professionale, ma il test INVALSI è uguale per tutti, al di là della latitudine, delle condizioni socio- culturali, del tipo di scuola.)
Nella scuola dell’autonomia la valutazione ha senso solo se chi valuta ne ha realmente le competenze, se è stato formato con uno specifico percorso ( come accade in altre nazioni come la Francia).
Valutare la scuola e chi vi opera ha senso se l’obiettivo non è creare competizione tra docenti, alimentare la concorrenza tra le scuole ma avere un riscontro rispetto all’operato e poter disporre di strumenti per il miglioramento.
Altrimenti è solo un modo per creare divisioni in un luogo, la scuola, dove la cooperazione tra gli insegnanti – del consiglio di classe, del Dipartimento ecc.- è una condizione necessaria per la Progettazione educativa e didattica e per la sua realizzazione.
Il dibattito continua anche qui: https://www.facebook.com/luciano.pes.3/posts/10202980502568674?notif_t=like
Sono pienamente d’accordo con Gianluca Floris, che ringrazio: non è compito dei politici mettere mano al progetto dell’arco. Essi però avrebbero il dovere, proprio come si sottolinea nel suo commento, di ascoltare il mondo della scuola e coloro che cercano di occuparsene, analizzando i suoi problemi, in modo da proporre piani e progetti, soprattutto se presentati con un titolo e con propositi così ambiziosi, che ne tengano adeguatamente conto. Ciò che rimprovero a Renzi e al ministro Giannini è non averlo fatto.
Quanto ad AA, che non ha neppure il coraggio di firmarsi come faccio sempre io, assumendomi le responsabilità delle mie prese di posizione, giuste o sbagliate che siano, ed esponendomi alle critiche argomentate, non so (e per la verità non mi interessa neppure sapere) il motivo di tanta persistente acidità nei miei confronti. Nel merito del suo commento odierno mi limito a far presente che forse è perché mi baso solo sul “sentito dire” e non mi sono mai occupato direttamente di istruzione che le scuole di tutta Italia mi chiamano di continuo a fare corsi di aggiornamento per i loro insegnanti.
Nessuna acidità, ci mancherebbe. Semplicemente trovo più interessante chi parla della scuola e nella scuola ogni giorno ci lavora (in un ruolo o nell’altro). Trovo meno interessante chi parla della scuola dal di fuori: teorici, politici, imprenditori, poiché di scuola, come si dice, “non ne sanno”. E’ solo una mia opinione.
Scusa Vito, ma te lo ha ordinato il medico di pubblicare ogni 2 settimane un contributo del professore ? Ma sopratutto a cosa serve parlarne a livello teorico basandosi sul sentito dire, visto che il prof. non ha mai insegnato nella “scuola” (infanzia – superiori) ma solo all’università, almeno negli ultimo 30 anni. I problemi della scuola sono molto più terra terra.
Io conosco il valore delle persone. Ora mostraci il tuo su questo tema.
Pensare a Renzi come un filosofo, un pedagogista, un antropologo, un epistemologo che possa mettere mano al progetto “dell’arco” necessario al nostro sistema educativo, mi pare quantomeno poco realistico, se non addirittura sbagliato.
Il Professor Tagliagambe ci regala qui un contributo importantissimo tratteggiando con poche pennellate quello di cui davvero un sistema pedagogico educativo scolastico del nostro tempo avrebbe bisogno: “fluidità”, “varietà”, “flessibilità”, “orizzontalità”, “integrazione”, “visione” sono requisiti che mi portano alla mente l’idea – ancora Calvino! – della “leggerezza”; quella necessaria ad un nuovo sistema educativo venturo, da contrapporsi alla “pesantezza” del sistema ancora vigente e senza più giustificazione storica e culturale. Il pensiero del Professore qui ospitato, è una vera miniera di riflessioni e di riferimenti per il futuro e mi suona come particolarmente familiare e affascinante, vista la naturale “leggerezza” del mio sistema di formazione, di lavoro e di espressione: la musica.
Ma, ripeto, quella mancanza “di arco teso” che il professore denuncia nel progetto renziano, è esattamente la mancanza di un’idea filosofica e pedagogica “forte” che si possa tradurre in un progetto vero, che vada oltre “l’accatastare pietre” semplicemente. Mi vengono i brividi a pensare ad un politico italiano qualsivoglia che si metta a tracciare un arco così importante e impegnativo, che si metta a tradurre in azioni pratiche un’idea educativa così complessa e importante.
Quello del tracciare il progetto “dell’arco” è compito dei filosofi, dei pedagogisti, degli epistemologi e degli studiosi come il professor Tagliagambe, non di Renzi.
Il politico di turno può solo fare una cosa: ascoltare quelli che – come il Professore – dimostrano di avere un’idea chiara e strutturata di come dovrebbe essere il ponte che serve ai nostri figli e ai nostri nipoti per arrivare alla modernità da cittadini responsabili. Insomma: le pietre le mettano pure a disposizione i politici, ma – per favore – che il progetto lo faccia chi lo sa fare e chi ne ha il dovere civile e morale.
Leggendo “la buona scuola” il professor Tagliagambe non ha ravvisato l’idea di “arco” del progetto. Non poteva vederlo perché non c’era e – soprattutto – non ci poteva essere. Frammenti di quell’arco li troviamo invece in questo post che – per fortuna – il professor Tagliagambe ci regala. Grazie.