No, la battaglia contro le servitù militari in Sardegna non inizia oggi. Francesco Casula l’ha riassunta nel post “A foras sas bases: una battaglia che viene da lontano” che parte da Pratobello (1969), passa per l’opposizione alla presenza americana a La Maddalena (1972) e si conclude negli anni ottanta con la nascita del Comitato contro le basi militari (1983) e successivamente con lo stop al referendum consultivo (1989). Il referendum fu riproposto e bocciato anche nel 2004, con le stesse argomentazioni utilizzate vent’anni prima, cioè che non poteva riguardare questioni che non erano di competenza della Regione (nello specifico, la difesa e i trattati internazionali).
Se fino agli anni ottanta la mobilitazione nasceva da circoli di intellettuali sardisti ed era alimentata anche dall’ideologia di sinistra (peraltro in un contesto internazionale dove ancora l’unico scontro possibile era tra i paesi Nato e quelli del Patto di Varsavia), oggi la situazione è diversa: la protesta nasce dal basso e si fa largo nella coscienza popolare grazie ad una nuova idea di Sardegna che negli ultimi dieci anni si è fatta prepotentemente strada: l’idea di un’isola che crede nelle proprie risorse e che vede nella tutela del territorio e nello sviluppo locale la base della propria rinascita.
Quanto c’è di ideologico nella richiesta dei sindaci e delle comunità che si affacciano sul lago Omodeo di spostare il poligono della polizia, da tempo operante nel bel mezzo di un area di interesse comunitario e con una vocazione chiaramente turistica? Il racconto del sindaco di Sedilo Umberto Cocco (pubblicato da Sardegna Soprattutto con il titolo “Il lago Omodeo è ancora un corpo estraneo?”) ci dice molto di questa stagione di assenza della politica, della contraddizione esistente tra ciò che i partiti dicono debba essere la Sardegna (turismo, ambiente, territorio) e ciò che tollerano grazie alla presenza dei poligoni militari (terreni espropriati, inquinamento, nessuna ricchezza).
Oggi le coste sarde non possono essere stuprate dal cemento, ma dalle bombe sì.
La contraddizione è evidente e si fa strada nell’opinione pubblica, fortemente influenzata negli ultimi dieci anni da due fattori.
Il primo elemento di condizionamento è stato rappresentato, negli anni di Soru, dall’elaborazione e approvazione di quel Piano paesaggistico che (dopo anni di maturazione e di battaglie ambientalistiche), metteva assieme in maniera dinamica il valore della tutela con quello dell’identità e dello sviluppo. Con il Ppr il paesaggio assume un valore culturale restituisce all’isola la sua identità unitaria: ogni parte dell’isola è importante e merita di essere difesa. È grazie all’idea di Sardegna che nasce dal Ppr che oggi i sardi iniziano a sentire le basi militari e le loro migliaia di ettari espropriati come un corpo estraneo.
L’altro fattore che ha favorito la crescita della consapevolezza della società sarda nei confronti delle servitù militari è riconducibile al pensiero sardista fortemente rinvigorito dal nuovo “indipendentismo diffuso” oggi presente nella nostra opinione pubblica. Protagonista indiscusso di questa crescita è stata Irs, le cui battaglie hanno recuperato alla causa quel mondo giovanile che prima guardava a sinistra (oggi evidentemente in crisi) e hanno condizionato anche parte della destra e del mondo conservatore: senza la mobilitazione feconda degli indipendentisti (nelle loro varie gemmazioni, prima fra tutte Progres) sarebbe stato impossibile oggi per un ex esponente di Forza Italia cavalcare senza pagare pegno la battaglia contro le servitù e per un giornale storicamente conservatore come l’Unione Sarda fare propria questa causa.
Benché deboli elettoralmente, gli indipendentisti hanno quindi creato le basi culturali e politiche perché si arrivasse al livello di mobilitazione che vediamo in queste settimane.
In questo quadro fatto di vecchie e nuove idealità, dove si collocano il presidente Pigliaru e l’attuale maggioranza di centrosinistra e sovranista che lo sostiene?
La deideologizzazione del tema potrebbe essere loro propizia: non è solo di guerra e di pace che si sta parlando (e sono d’accordo con Salvatore Cubeddu quando scrive che “i Sardi (…) non possono permettersi di non contribuire alla propria, ed altrui, difesa. Dobbiamo farlo per nostra scelta – e secondo le nostre convenienze – di difesa, appunto, ma pure ambientali, economiche, politico-istituzionali. Non come ‘servi’ dell’Italia, o di altri”) ma di una nuova idea di Sardegna.
Quella contro le servitù militari è infatti una battaglia a favore di una Sardegna che programma il suo sviluppo in maniera diversa, più consapevole dei propri diritti e delle proprie potenzialità. Ecco perché non è necessario essere indipendentisti per capire che questa situazione è ormai intollerabile. Oltre lo sdegno, serve però un progetto.
Così come Soru varò il Ppr sulla scorta di una lunga elaborazione culturale e politica (di cui probabilmente non si rese nemmeno conto), oggi Pigliaru è chiamato a fare lo stesso sul tema delle servitù militari.
La manifestazione di sabato (convocata prima che scoppiasse il caso di Capo Frasca, a dimostrazione della maggiore lucidità e lungimiranza politica del fronte indipendentista) può essere per lui un vantaggio. Se veramente il presidente vuole contrapporsi allo stato per ottenere la chiusura immediata di almeno un poligono, oggi ha nell’opinione pubblica e nella piazza un alleato. Con maggiore difficoltà lo sosterranno invece i partiti, divisi al loro interno o incapaci di sguardi lunghi. L’ordine del giorno votato dal consiglio lo scorso 17 giugno è già stato superato dagli eventi (ormai troppo timida la richiesta di una “graduale dismissione dei poligoni militari ed il loro superamento dal punto di vista economico, sociale ed ambientale”) ed anche l’idea di un referendum consultivo arriva fuori tempo massimo (la avanzai anch’io nel post “Come per il nucleare, ora serve un referendum contro le servitù militari in Sardegna”, ma era il 2011).
Oggi Pigliaru interverrà in Consiglio sui fatti di Capo Frasca e allora capiremo se solleverà l’asticella delle rivendicazioni e se terrà conto del lavoro fatto dai nostri parlamentari nelle commissioni uranio impoverito e difesa: le due relazioni finali dovrebbero essere un punto di partenza di ogni trattativa con lo stato.
Dopo la mancata firma del protocollo d’intesa con lo stato e lo scandalo di Capo Frasca, l’obiettivo che non vanifica gli sforzi, getta le basi per un ripensamento della presenza dei poligoni in Sardegna e che segna una svolta vera nel percorso storico dell’isola a questo punto può essere uno e uno soltanto: la chiusura immediata proprio della base di Capo Frasca. L’opinione pubblica è matura, la piazza è mobilitata, ora tocca alla politica cogliere l’occasione. Sicuramente storica, probabilmente irripetibile. Se vuole, Pigliaru ce la fa.
Mi dispiace che non abbia gradito il commento che ho fatto, seguo il tuo blog da tanto tempo e mi ero convinto che non avessi bisogno di lettori che si inchinassero alle tue verità. Riassumo brevemente il mio pensiero: il movimento per lo smantellamento delle basi militari è plurale, composto da indipendentisti, da antimilitaristi, da associazioni, dtc, non credo ci sia bisogno di un unica guida bensì c’è necessità di un robusto coordinamento. Questione di sfumature, l’importante è che questo insieme di soggetti continuino a collaborare su questa partita; su altre questioni ognuno per la sua strada.
E allora attendiamo il robusto coordinamento.
commenti spaventosi nell’unione sarda e nei giornali sardi da parte dei lettori , tutti a favore delle basi militari . Siamo sicuri che l’opinione pubblica sia d’accordo??
che tristezza!
Chi ha posto per primo, in maniera documentata e costante, l’attenzione sulla questione servitù militari in Sardegna è stato indiscutibilmente il comitato “Gettiamo le Basi” di Mariella Cao. Poi movimenti e politici sopratutto negli ultimi anni hanno cavalcato e stanno cavalcando la questione, vedi l’ex presidente della regione Pili, che se ne è infischiato alla grande per annie anni e ora gli manca solo il passamontagna. Comunque bene così, sulle questioni ambientiali il fronte deve essere comune tra tutti. Aggiungerei anche Teulada tra le basi da chiudere seduta stante.
Da attivista di iRS non posso che essere felice di questo riconoscimento da parte tua. Noi in 10 anni abbiamo fatto la nostra parte, cosi’ come l’hanno fatta gli altri, indipendentisti e non, che hanno girato la Sardegna come noi ed assieme a noi.
Un’altra parte ENORME l’hanno fatta i vari Comitati Cittadini, primo fra tutti “Gettiamo le Basi” di Mariella Cao. Io credo, anzi noi crediamo che sia giunto il momento di mettere da parte tutto, e pensare al bene della nostra terra. Questa è una battaglia che dobbiamo portare avanti tutti assieme, nessuno escluso. Essere divisi anche in questa occasione, sarebbe un verio e proprio delitto che rafforzerebbe solo ed esclusivamente l’interesse italico, il quale ovviamente non è mai il nostro.
La manifestazione di Capo Frasca (del 13 settembre) deve rappresentare un nuovo punto di partenza per tutti, perchè questa è una battaglia di tutti.
Sì, l’azione del comitato Gettiamo le Basi e di Mariella Cao è stata tanto eroica quanto, purtroppo, a lungo isolata. Il comitato per anni ha fatto un lavoro pazzesco, producendo una documentazione che oggi torna utile a tutti.
A tutti, è verissimo, compresi quelli e quelle che per anni sono stati completamente zitti e assenti.
Vabbè, non è tempo di fare polemica, adesso è tempo di raccoglierci e fare quello che serve, tutti assieme.