Qualche settimana fa mi scrive la mia amica Alessandra. Mi dice che le sembra di aver riconosciuto nel film di Peter Marcias “Dimmi che destino avrò” una donna rom che aveva conosciuto vent’anni fa quando faceva la tirocinante in ospedale. Di Vesna (che è questa signora che vedete nella foto) mi aveva già parlato come di una persona straordinaria, e adesso mi chiede se in qualche modo la posso aiutarla a ritrovarla. E questo è il racconto del loro incontro: vent’anni dopo.
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Ho conosciuto Vesna 20 anni fa.
Avevo 20 anni, gli stessi che ha adesso Satko, il figlio che ho visto nascere ed assistito durante il tirocinio ospedaliero nel reparto pediatrico dell’ospedale “Santissima Trinità” di Cagliari.
Come è nella loro tradizione, fecero una grande festa al campo (allora stava in via San Paolo) e Vesna mi invitò. Difficile per una ventenne avventurarsi in un mondo sconosciuto come quello dei campi rom di vent’anni fa, con un bagaglio di retaggi culturali non indifferente: non ci andai, anche se mi ero molto affezionata a loro. Ma Vesna mi è sempre rimasta nel cuore per il suo autentico matriarcato, la sua apertura mentale e la generosità. Ho pensato molte volte a lei in tutti questi anni.
Scrissi a Vito di lei qualche mese fa, mentre riflettevo sui retaggi culturali sugli “zingari” e sulla mia necessità di approfondire la materia, ignorando completamente che Vesna era impegnata nelle scene di un film che tratta proprio gli argomenti di queste riflessioni.
Galeotto fu quel film. Non sono riuscita ad andare a vederlo al cinema, l’ho visto in streaming grazie a un post in questo blog, con il quale Vito ci invitava a prenderne visione.
L’ho visto nemmeno una settimana fa, il penultimo giorno utile, prima che lo streaming non fosse più disponibile. “Dimmi che destino avrò” di Peter Marcias, con la sceneggiatura di Gianni Loy.
Un flash: riconosco Vesna, sono quasi certa sia lei con vent’anni, chili e capelli bianchi in più. In men che non si dica, perché il mondo è davvero piccolo quando la volontà supera ogni ostacolo, riesco a rintracciarla. E ancora una volta c’è lo zampino di Vito che ho tartassato affinché mi aiutasse in questa impresa. Dovevo assolutamente chiudere quel cerchio aperto da vent’anni per non essere andata al campo, allora.
Lei non si ricorda di me, però mi invita senza remore a passare da loro per “la festa”.
Parto coi bambini dopo il lavoro, alla volta del campo che sta nella strada per Dolianova (che trovo con estrema facilità, le indicazioni ricevute sono molto precise, impossibile sbagliare).
Arrivo intorno alle 15.40 con un vaso di roselline rosse e al seguito i miei figli, ancora con il grembiule di scuola. Veniamo accolti affettuosamente e tra sorrisi curiosi, ci scrutiamo a vicenda, superiamo presto l’imbarazzo, un po’ di ancestrale diffidenza e l’emozione iniziali.
Ed eccoci qua abbracciate, io e Vesna, a vent’anni dal nostro incontro. Oggi, 14 gennaio, si festeggia il Capodanno nella tradizione bosniaca, con un pranzo di pietanze tipiche: agnello arrosto con patate, la pita (a base di patate, cipolla e una variante con formaggio) e dolci tipici come la baklava (a base di noci tritate e pasta sfoglia tipica sottilissima).
Loro hanno già mangiato, ma la tavola è ancora pronta per accogliere ancora degli ospiti. Vesna chiede ai miei bambini cosa gradiscono e loro rispondono sentendosi a proprio agio che vogliono il dolce. Quanto a me, penso che abbia capito che non ho ancora pranzato e vuole a tutti i costi che io mangi qualcosa (niente di così diverso dalle nostre donne sarde che non ti fanno andar via se non hai mangiato e bevuto e ti danno pure il piattino da portar via coi dolci, solo che lei non si offende se non gradisci qualcosa).
L’agnello no, non ce la posso fare, non lo dico apertamente ma Vesna capisce. E non insiste. È scaltra, ci si intende al volo, senza troppi fronzoli. Poi arriva anche il caffè tradizionale, che si prepara senza la caffettiera (proprio come nel film). Lo sorseggiamo mentre guardiamo le foto del matrimonio di Satko con una ragazza bosniaca.
Mi offro per aiutare a sparecchiare ma lei non vuole assolutamente, dice che sono tante donne e le mette tutte a “lavorare”, anche la più piccola.
Fuori fa freddo al campo, ma la loro casa è calda, grazie alla stufa a legna costruita da Fadil. Fadil è il compagno di Vesna: si commuove al mio racconto del parto. “Posso raccontarlo?” chiedo. “Sì, racconta, racconta” dice lei, e lui annuisce.
Vesna voleva partorire al campo e quando iniziò il travaglio non volle svegliare Fadil. Ma lui se ne accorse ed insistette affinché lei partorisse in ospedale. Fu tutto molto veloce, quando arrivarono il bambino era già impegnato e tra un po’ nasceva sulle scale. Vesna si sciolse immediatamente i capelli, oggi mi ha spiegato che la tradizione vuole così. Partorì con una dignità esemplare, si preoccupò di sapere se il bambino stesse bene e quando le chiesi “Tu come stai?”, rispose “Importante bambino sta bene, io…” e fece un gesto come a dire che non aveva importanza.
Fadil allora racconta che sentiva che sarebbe nato un maschio e quando ne ebbe la conferma pianse. E io gli ricordo che tirò fuori dal portafogli una banconota da cinquantamila lire e mi disse di comprare le paste per tutti per fare festa in onore di suo figlio. Io li rifiutai. Fadil si ricorda bene e anch’io ricordo che ci rimase molto male. Ho finalmente l’occasione per scusarmi, spiego che ero una studentessa e rischiavo di passare guai accettando soldi dai pazienti.
Si festeggiò comunque, qualcuno andò a comprare le paste e da bere per tutto il reparto. Tutti ascoltano in silenzio, a bocca aperta. Vesna spiega che è loro tradizione, quando nasce il figlio maschio, donare tutto ciò che si ha in tasca per festeggiare. E scoppiamo in una bella risata liberatoria.
Sette figlie femmine e un maschio (le donne al campo sono in netta maggioranza, mi dicono). Gli uomini di casa lavorano, ritirano e vendono il ferro e fanno le bancarelle ai mercatini dormendo fuori per custodire la roba.
Le ragazze studiano (Vesna è contraria a lasciarle buttate in giro a chiedere l’elemosina tutto il giorno per pochi spiccioli, vuole che acquisiscano un buon grado di istruzione invece), tranne la più grande che lavora. È appena andata via infatti, lasciando lì la figlia, per festa coi nonni e gli zii: ha sposato un italiano e con lui gestisce un’attività di camping e ristorazione.
La più piccola ha l’età di mia figlia e frequenta la seconda elementare. Ha delle guance rosse e cicciotte che viene voglia di prenderle a pizzicotti. Una di loro, vince sempre la borsa di studio della Fondazione Anna Ruggiu e così riesce a pagarsi gli studi alla scuola superiore. Parla così correttamente l’italiano, veste e si trucca come le ragazzine del nostro tempo che quasi non ti accorgi subito della sua etnia d’origine, data la sua carnagione olivastra. Sono tutti molto educati ma lei si distingue per i suoi modi di fare molto fini ed aggraziati. Sarà una cittadina italiana a tutti gli effetti tra poco, al compimento del diciottesimo anno di età. Dai suoi occhi sprizzano degli straordinari potenziali creativi, che spero tanto trovino espressione in futuro. Chissà che destino avrà… Si diverte quando mio figlio scorge tra i rifiuti pezzi di piste, circuiti elettrici e chiede di poterli prendere per i suoi esperimenti. “Anch’io da piccola ero così!” dice ridendo.
Ed infine il momento dei saluti, devo portare i bambini in piscina e abbiamo un po’ di strada da fare. Ci invitano a tornare ancora, magari d’estate, quando tutti i bambini giocano fuori. Vesna mi consegna il piatto con la baklava ben involta per mio marito e con due delle sue figlie ci accompagna alla macchina, senza indossare niente per ripararsi dal vento gelido. “Siamo abituate”, dicono…
Un grazie di cuore a te Vito e a Gianni Loy per la grande disponibilità che ha permesso a questo incontro di concretizzarsi. Una di quelle perle nella vita che non si dimenticano mai.
Benvenuto, 2013.
Alessandra
Grazie a tutti per aver letto e possibilmente condiviso la mia gioia.
Reblogged this on Il blog di Fabio Argiolas.
Grazie Alessandra per questa bellissima testimonianza 🙂
Pingback: Ci scrive Alessandra: “Vesna, ti ricordi di me Dalla sala parto al campo rom, vent’anni dopo: un giorno di ordinaria magia” | FiascoJob Blog
Che bella storia, grazie Alessandra..
Per carità Alessandra, ti credo. Sarà una coincidenza che due storie tanto simili possano accadere. Dopotutto se è una tradizione non è così raro che possa accadere.
E come ho detto prima: fossero tutti così i rom si starebbe benissimo!
Io direi… Fossimo tutti così. Questo è un quadretto felice, sono consapevole che non è così per tutti, ma non solo tra i Rom. Guardiamoci intorno. Per questo io penso che valga il detto “Se cresco io, cresci tu. E viceversa.” Chi può fare qualcosa per questa evoluzione la faccia, fosse soltanto svegliarsi la mattina e pensare che sia possibile.
fantastico, esperienza di vita vera, lontana dai pregiudizi….Brava Alessandra. hai soprattutto regalato ai tuoi figli un futuro unico…
Mai dannu tengias e bona furtuna!
Gratzias meda! A centu e prusu cun saludi 🙂
Sarò poco fiducioso ma avevo già letto questa storia qualche annetto fa…sarà una coincidenza?
Per carità, fossero tutti così il problema Rom non sussisterebbe. Realtà vuole che le cose non siano così.
Benvenga se ci sono altre storie come questa, significherebbe che i poco fiduciosi, come lo ero io vent’anni fa, hanno iniziato a farsi domande e a cercare risposte sui Rom. La mia esperienza sul “campo” per il momento è questa ed è autentica, padrone di crederci o meno. Se vuoi conoscere Vesna e la sua famiglia…, loro sono li ed accolgono volentieri chi ha voglia di condividere con loro dei momenti di sereno scambio, senza nulla chiedere in cambio. (Anzi, siamo noi ad essere tornati a casa con il piattino pieno del loro dolce 🙂
Ma forse, maritoallaparmigiana, forse si ricorda di questa storia perché Alessandra, come ha scritto nella lettera di oggi, già la postò qui sul blog di Vito! E colpì lei come del resto colpì me, e mi colpisce e appassiona ancora. O no?