Si riparla in queste settimane di Enrico Berlinguer. Ricorrono infatti i novant’anni dalla nascita del segretario del Partito Comunista Italiano, sicuramente uno dei grandi protagonisti del secondo Novecento del nostro paese. A Sassari (sua città natale) Berlinguer è stato ricordato nel corso di un’iniziativa a cui ha partecipato anche lo scrittore ed ex deputato del Pci, Salvatore Mannuzzu. Il suo intervento è stato pubblicato (anche se con qualche taglio) dal quotidiano La Nuova Sardegna. Quella che vi propongo è invece la sua versione integrale, che l’autore mi ha personalmente inviato perché la proponessi ai lettori di questo blog. Grazie Toti per questo bel regalo.
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Enrico Berlinguer aveva formulato la sua proposta politica di austerità nel gennaio 1977: quando già la cultura dello spreco prendeva piede, poco avvertita, la nostra nazionale orchestrina Titanic cominciava a suonare e il disastro, verso il quale scivolavamo dolcemente, era anche politico – o addirittura antropologico. Sicché quella proposta risultava certo tempestiva, perché non esisteva altro rimedio a quanto ci stava capitando e poi si sarebbe aggravato; ma insieme era una proposta controtempo, rappresentando l’opposto di quello che noi – sempre più viziati dai consumi – ormai chiedevamo dalla vita. Quando dico noi intendo tutti: anche le masse che votavano comunista; anche le schiere di compagni che dalle periferie al centro erano le strutture portanti e attive del partito, dentro le sezioni, i comitati cittadini, federali, regionali – e oltre: fino ai vertici.
Berlinguer allora fece la sua parte di leader che riesce a leggere la verità della storia, nell’essere e nel divenire; e il conflitto fra quella sua parte di leader, dalla vista troppo acuta e lunga, con lo spirito dei tempi e persino con l’anima del partito – come stava mutando, fino a perdersi – era un rischio professionale. Era un prezzo da pagare secondo le logiche, rettamente intese, del mestiere di guida politica; ma un prezzo assai alto, giacché poteva coincidere col destino minoritario del profeta. E ai profeti capita spesso di non essere compresi (anzi Gerusalemme li lapida e li crocefigge).
Berlinguer però non faceva di mestiere il profeta. Non era un impolitico e disarmato profeta: era invece il segretario nazionale del Pci. Sulla via politica dell’austerità doveva portare il suo partito e l’intero suo paese; se possibile dentro dinamiche internazionali congrue. E il cammino non era breve né poco accidentato: sono operazioni che hanno bisogno di tempo.
Questo tempo Berlinguer non lo ebbe, lo sappiamo. La partita era in corso quando lui uscì dalla gara per un ictus. Dunque nessuno può parlare d’un suo fallimento. Anche se poi avere successo in quell’impresa, sia pure nei modi incompleti e contaminati del possibile, era davvero arduo: dato che la necessità vitale dell’austerità veniva proprio dall’opposta piega delle inclinazioni collettive e degli approdi reali. L’esperienza di quegli anni dice che la proposta si scontrò con un’udienza refrattaria anche dentro il partito. Dove restava ancora un’abitudine alla disciplina, o addirittura al conformismo; ma le quotidiane lusinghe consumistiche già si mescolavano alle identità, nell’ascolto di mille sirene congeniali, specialmente mediatiche: ed erano ovviamente lusinghe molto forti.
Ci fu dunque anche nel popolo comunista la paura di dover rinunciare a qualcosa: molto o poco, in genere nemmeno tanto; a qualcosa che si era riusciti faticosamente a strappare proprio con le lotte politiche – e con le complicità degli anni delle vacche grasse, dei cosiddetti boom. Ci fu la paura di ritrovarsi fuori dal colorato tepore guadagnato solo di recente, e restituiti alle condizioni di prima: alle condizioni dei padri. La digestione della proposta fu subito armata da mille distinguo e mai entusiasta; risultò laboriosa e incompleta – con sostanziali fraintendimenti. Furono pochi a capire che proprio lì stava il nucleo strategico: se non si cambiava il modello di sviluppo, modificando le direzioni dei consumi – quindi i modi di produzione e le qualità delle merci – altro che socialismo: i bisogni generali veri restavano insoddisfatti, le disuguaglianze sempre più incolmabili e dolorose, e l’area degli esclusi sempre più vasta.
Poi le cose sono andate come sono andate: lo sappiamo ed è inutile perdere tempo andando a ripeterlo.
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Saltiamo allora ai giorni nostri, per farla breve. Si capisce che le contingenze immediate sono altre, ora che “austerità” è divenuta – non a torto – quasi una parolaccia (austerity), in qualcuna delle sue accezioni. E io non dico che non si debbano cercare, per queste contingenze, risposte specifiche. È urgente anzi farlo: ma guai a fermarsi qui; giacché ci troviamo dove ci troviamo perché abbiamo solo inseguito le varie contingenze, da stupide cicale (fin dentro il gelo dell’inverno): senza mai pensare a una qualche strategia, senza mai guardare al futuro e ai figli.
Verifichiamo dunque se la proposta d’austerità di Berlinguer resta in qualche modo attuale, proprio in termini di strategia e di futuro. Partendo, di necessità, da una sommaria, rozza ricognizione delle condizioni date. Primo: l’ecosfera è evidentemente a rischio. O magari peggio che a rischio: il processo di deterioramento sembra già avviato e non si sa quanto sia reversibile; gli scricchiolii che continuamente ci turbano (o ci lasciano indifferenti) non fanno presagire nulla di buono. Secondo: nel côté economico e sociale la povertà cresce dappertutto. Su immense aree del pianeta Terra il tasso di mortalità infantile per fame e stenti è spaventoso. Ma anche fuori da questi estremi, e più vicino a noi, qui, si assiste a un continuo aggravamento della situazione: si inaspriscono le vecchie povertà, emergono fasce foltissime di povertà nuove. Dovunque, nel mondo, l’area dei titolari della ricchezza si restringe; e i ricchi diventano sempre più ricchi.
In particolare, adesso c’è questa crisi: strutturale, indotta e complicata dal capitalismo finanziario, con la prevalenza del mercato sulla democrazia. È una gravissima crisi dell’intero Occidente, e non solo; una crisi di lunga durata: di durata pressoché indeterminata, se indeterminata significa che non si sa quando finisce. Comunque la ripresa economica sarà lenta, molto lenta, e incerta. Mentre tarda, aumentano le disuguaglianze, le situazioni critiche di massa. Sono giaculatorie ben note: da noi crescono le folle di giovani senza lavoro, quasi per destino generazionale, mentre nell’Africa nera e in vaste plaghe del Sud America la miseria diventa totale desolazione e disastro. E il mondo più infelice preme sul mondo meno infelice: preme materialmente, fisicamente: fatalmente; in un crescendo naturale e a volte minaccioso.
La verità di questa tragedia è che il modello di sviluppo vigente, basato sul vigente modello dei consumi, è fallito: definitivamente fallito. Ma c’è una tenace viscosità di questo modello: il consumismo – anche quando non ci sono più risorse per praticarlo – è assoluta cultura di massa: dato divenuto identitario, antropologico; appunto come una malattia che si fa vita: la vita. Una malattia che non risparmia nessuno, contagia – ha contagiato – tutti: anche i più miseri. Non spontaneamente: il modello di sviluppo vigente, vale a dire al potere, per mantenere e incrementare i suoi profitti si è imposto con mezzi di persuasione capaci di scendere al livello delle anime, di modificare con gli sprechi le persone. Ed è qui che si incontra l’ostacolo più consistente al cambiamento: se quelli che dovrebbero operarlo non hanno voglia di cambiare.
Quale cambiamento? Consumo è una parola neutra. L’attuale caduta dei consumi è un dato negativo dell’economia e un segno della crescente infelicità sociale. Non lo vogliono capire i fautori di un’austerità tutta di destra che soffoca, in Europa, ogni prospettiva di sviluppo. E intanto l’Africa nera ha una disperata e inesaudita fame – fame e sete – di estendere in misura straordinaria la massa dei propri consumi. L’umanità ha necessità, complessivamente, di consumare di più, non di meno. Ma occorre modificare alla radice la qualità dei consumi: sopprimendo i molti che soddisfano solo bisogni indotti dalle suggestioni del mercato – Marx li chiamava «bisogni immaginari» – e introducendo consumi altri, nuovi, vitali, con una estensione mondiale dell’area dei consumatori.
È evidentemente una grande questione politica: una questione di potere. E l’impasse è politica, giacché la crisi impegna proprio il livello della politica. Coloro che dovrebbero essere gli attori del cambiamento, i portatori degli interessi relativi, i potenziali promotori dei controlli democratici sul mercato, non mostrano – si è già detto – molta voglia di cambiare. Appaiono in genere depoliticizzati, spompati, anestetizzati: prigionieri del proprio particulare. Il sale sta perdendo sempre più il suo sapore. Il disastro che ci minaccia – ecologico ed economico in termini planetari – può essere preso in mano solo dall’homo sapiens. Ma l’homo sapiens non sembra più all’altezza.
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Berlinguer, che pure era capace di vedere il «qualcosa di vero che sta sotto la pelle della storia» (come lui lo chiamava), non poteva fare i conti con questa disperazione: che si è manifestata, tanto imponente, solo dopo di lui. Ma l’idea di austerità che lui ci consegna ha in sé un’indicazione del rimedio, dell’unico possibile rimedio: perché disegna un’austerità con una forte accezione soggettiva, culturale. Un’austerità di vita che i viventi devono scegliere, conquistare per sé e per tutti. E allora la chiave sta in un cambiamento molecolare delle coscienze. Fuori da ogni logica dei due tempi, s’intende: senza essere esentati da ogni altro adempimento. Ma non mancando un attimo di lavorare sulle coscienze, a cominciare dalla propria.
Potrà sembrare detto per scherzo, oppure con troppa enfasi; ma io non trovo altre parole adeguate, nella loro accezione laica: viviamo in terra di missione, e ci dobbiamo convertire, tutti. Altrimenti finisce male. Berlinguer aveva visto giusto, aveva ragione: ma guai se non restituiamo al sale il suo sapore.
È un’impresa disperata? Sì. O quasi: quasi disperata. Chi è avanti negli anni non si faccia illusioni: non la vedrà compiersi. Gli altri possono – anzi devono – sperare nel quasi.
Salvatore Mannuzzu
E’ vero, il consumismo è una malattia che ci sta consumando. Lo scrivo dal mio iPhone, come fanno tanti adepti del ritorno alla natura, alla zappa, agli ortaggi coltivati in digitale su Facebook.
No: Nessuna nostalgia per l’austerità di Berlinguer.Siamo nel nuovo secolo:perchè abbarbicarsi a un pensiero tramontato e sconfitto dalla Storia ; perchè convincersi che il problema è ancora la società dei consumi e il contagio sulla mitica classe operaia…
anch’essa sostanzialmente scomparsa.
Mi tornano alla mente le parole del grande Faber:
…Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn
capelli corti generale ci parlò all’università
dei fratelli tutte blu che seppellirono le asce
ma non fumammo con lui non era venuto in pace
e a un dio fatti il culo non credere mai …
Meglio allora guardare in faccia la realtà di Oggi.
Discutere sulle (nuove) tesi di Gallino sul nuovo conflitto sociale e
aprire la mente al pensiero di Latouche: una “decrescita” non tafazziana ,ma orientata ad una nuova scala di valori, beni, priorità…Abbondanza frugale, ma abbondanza ; da conquistare , certo.
Ma per favore, basta austerità, magari da subire contrattando, responsabilmente: tristi e ripiegati nel passato, con la foto di berlinguer in tasca. No, grazie. Abbiamo già dato.
Io credo che Berlinguer semplicemente avesse una visione lunga, d vero statista qual era. Perché essere segretario del PCI, il più grande partito comunista d’Occidente, valeva quanto essere un capo di stato. Ci ha visto lungo perché primo fra i politici di prima grandezza (in posizioni marginali si può dire e fare di tutto) ha sentito lo scricchiolio di un sistema alimentato dal consumo forsennato, a prescindere dagli effetti sulla biosfera, sulla psiche degli esseri umani. Mi pare ci sia una scena di un film dei fratelli Marx dove loro alimentano la motrice dando fuoco a tutti i vagoni del treno, smantellandolo. Ecco, Berlinguer queste cose le ha viste prima.
Oggi il tema è modificare il modello dei consumi, ripensare i sistemi di produzione, passare dalla semplice ecoefficienza alla biomimesi, ovvero all’adozione di tecniche che imitano gli ecosistemi, dove il problema dello spreco non esiste perché gli scarti di un livello sono le materie prime di un altro.
La decrescita, felice o infelice, non serve per tutelare la natura. Perché, come faceva notare il geniale George Carlin, la natura si tutela da sola e sarà là, in qualche modo, anche quando l’intero genere umano sarà estinto. Serve per salvare noi.
http://m.youtube.com/watch?v=QXvK359TL2Y
Giulia, hai ragione, si è fatto di Berlinguer un santino senza approfondire le contraddizioni dell’uomo e del politico. Chiudere gli occhi non serve a eleudere la realtà delle cose. Consiglio ai vetero questa lettura da un giornale non sospetto
http://www.repubblica.it/online/fatti/kgb/caporale/caporale.html
Solo un piccolo appunto al comunque grande Mannuzzu: non è del tutto vero che Berlinguer non ebbe il tempo e le possibilità di capire cosa sarebbe successo. Avesse ascoltato con più attenzione Laura Conti forse avrebbe capito prima la portata della questione.
Non per perdere tempo andando all’indietro: siamo ora costretti ad una “decrescita infelice” ed ancora troppi, anche “a sinistra”, vedono nella crescita pur che sia l’unica via d’uscita dalla crisi.
Non è un’impresa disperata. E’ risolvibile.
La cosa più difficile è smuovere le coscienze, e avvicinarle in una coscienza collettiva. Il consumismo non può essere annichilito: gli uomini hanno bisogno di provare piacere. Ma il consumismo può modificare il suo target, spostandosi dagli oggetti, al sapere.
La brama di piacere può essere indirizzata dal bisogno di possesso al bisogno di conoscenza.
Nel frattempo però si può lavorare, a piccoli passi, su obiettivi più tecnici, quindi più facili da realizzare, nel breve periodo.
Vito ricordi il post in cui chiedevi di elencare i punti di un programma per la Sardegna, sull’esempio di quello greco ?
I primi tre punti che mi sono venuti in mente rispondono al bisogno di austerità che Salvatore Mannuzzu ci ripropone.
Mi è tornato in mente anche un convegno che avevamo organizzato con ospite Maurizio Pallante, si parlava di “decrescita felice”, mi sembra che fossi tu il moderatore.
Dobbiamo rimboccarci le maniche (non come Bersani però) ed organizzarci, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, di tutta la nostra forza, di tutto il nostro entusiasmo.
Ma se Berlinguer era per la coesione nazionale, l’austerità e l’onestà perché non rinunciò in tempo utile ai soldi che l’Unione Sovietica, potenza straniera e nemica all’epoca, trasferiva di nascosto al PCI?
I soldi che l’Unione Sovietica trasferiva di nascosto? Erano nascosti come quelli che la CIA passò ai piselli di Saragat per la scissione di Palazzo Barberini, come quelli che che l’URSS forniva a Nenni, e che poi passò a Tullio Vecchietti per la scissione PSIUP, come quelli che gli USA passavano alla DC e la Confindustria ai Liberali.
Né più né meno.
Io ero tra quelli iscritti al Pci che per un pelo riuscirono a scamparsi “i corsi di aggiornamento” negli U.S.S.R.S…Sto ancora aspettando il bonifico della quota parte di quei finanziamenti!!!! Leggenda Metropolitana leggera!
Io ho ancora dei rubli a casa, sai? Di quelle vecchie banconote, immancabilmente con l’effigie di Lenin. Peccato che le ho acquistate in Germania come pezzi da collezione a 2 Deutsche Mark (del 1993) l’una, e ora fanno compagnia agli altri miei pochi pezzi, principalmente dinari jugoslavi e prime emissioni slovene. Nel PCI non ho visto un rublo manco per scherzo, giusto al termine di una campagna elettorale particolarmente faticosa il segretario federale mi allungò in omaggio qualche buono benzina, dovendo recitare la parte dell’offeso perché li accettassi. Cos’è nudda rispetto ai valigioni pieni di buoni con cui alcuni democristi, oggi perlopiù a centrodestra, si procacciavano i voti.
Ma perchè non ce ne mandano più, di dollari e rubli, proprio adesso che ne avremmo tanto bisogno?
Magari yuan…
Perchè non chiediamo?
Quando ero ragazzo e facevo la questua per finanziare la festa dell’Unità qualche rublo mi avrebbe fatto comodo…invece tutti soldi dalle tasche dei miei concittadini che, chi più chi meno, qualcosa davano. Non credo fosse una leggenda metropolitana, ma un sistema di “mutuo aiuto” fra partiti comunisti, che avendo una visione intenazionalista, queste cose le facevano.
Si fa sempre un errore a non contestualizzare. Per noi comunisti – mi sono iscritto al PCI a 14 anni, nel 1978, l’URSS non era un paese nemico. Era la prova che era possibile anche un’altro sistema economico. Ricordo che il primo a parlare di “fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre” e di “maggior tranquillità sotto l’ombrello NATO” fu Enrico Berlinguer. E’ dire queste cose ai tempi non era come cazzeggiare in un blog.
Esatto, Sovjet. Sembra tutto facile, estrai dal cilindro un coniglio: la questione “rubli di mosca” et voilà, smascherato Berlinguer, un santino inutilizzabile.
E pazienza se dobbiamo pure sorbire banalità come alcune citazioni di un bravo cantante -appellato con un nome che non ha mai portato in pubblico- per fare un altro po’ di confusione.
Era difficile capire la portata del ragionamento di Berlinguer allora, adesso con tutta la burrumballa della politica e della cultura “easy” è ancora più arduo, a quanto pare.
(Le poesie sono un buon commento. Soprattutto in un periodo come questo. Ne aggiungo una. Forse non serve “a venirne fuori” come dice ZunkBuster, né è lirica come quella di pisentip. Ma descrive abbastanza bene ciò che prova chi sta ancora “dentro”.)
SFINITO
Sempre cara mi fu la voce folle
di chi chiedeva libertà e giustizia,
in quel partito che per primo volle
diffondere nel mondo la notizia
che c’era un altro modo e un’altra via
di intendere la vita e l’esistenza,
di sconfiggere miseria e tirannia,
e ridare ai più deboli speranza.
Ma sentendo e mirando ciò che accade
in parlamento o nel telegiornale.
nelle città, nei borghi e per le strade,
io nel pensier mi fingo e sto già male.
E mi sovvien Livorno! E poi la Bolognina,
e Padoa Schioppa e la sua linea dura
e il ciarmottìo di Prodi ogni mattina
ove per poco il cor non si spaura!
E Pecoraro Scanio e, ancor più atroce,
l’assurdità della storia recente.
Io, questo infinito sgomento a quella voce
vo comparando: e mi sovvien la gente
tenuta insieme da un vaga lusinga,
da un programma oscuro e evanescente
e l’ombra del Cavalier che ancor s’allunga,
e le morte stagioni, e la presente.
Così s’annega il pensier mio in questa valle.
E il naufragar mi fa girar le palle!
Piuttosto che aggiungere parole meglio citare i passaggi appropriati di un testo da condividere totalmente.
(…) Sicché quella proposta risultava certo tempestiva, perché non esisteva altro rimedio a quanto ci stava capitando e poi si sarebbe aggravato; ma insieme era una proposta controtempo, rappresentando l’opposto di quello che noi – sempre più viziati dai consumi – ormai chiedevamo dalla vita. Quando dico noi intendo tutti: anche le masse che votavano comunista; anche le schiere di compagni che dalle periferie al centro erano le strutture portanti e attive del partito, dentro le sezioni, i comitati cittadini, federali, regionali – e oltre: fino ai vertici. (…)
Bel contributo davvero quello di Mannuzzu. Concetti che chi ha fatto in tempo ad aderire al PCI quando Berlinguer era ancora vivo costituivano un “vangelo” spesso difficile da assimilare, che molti hanno assorbito frettolosamente, che molti hanno disdegnato, scambiandolo ora per l'”austerity” che significava domeniche a targhe alterne mal sopportate in un’Italia il cui boom era stato simboleggiato dall’automobilismo di massa, ora per chissà quale compiacenza a un certo ascetismo di marca cattolica che trovava la sua espressione quasi fisica in Aldo Moro (peraltro, per nulla disprezzabile a fronte del rampantismo craxiano che sarebbe venuto di lì in poi, sirena che esercitò un’attrazione fatale nei confronti di molti compagni). Allora, forse, non era “il momento” per proporre questo discorso, perché non si era ancora alla crisi decisiva di un certo modello e si coltivava la speranza che lo stop alle magnifiche sorti e progressive dell’immancabile crescita ad libitum dell’economia capitalistica fosse solo momentaneo, e destinato a dare il la a una nuova crescita eterna, “the sky is the limit” come dicono gli americani. Oggi che comprendiamo in modo più chiaro che la crisi che attraversa il sistema è strutturale, e che la definitiva implosione del comunismo, anch’essa, sia pure in modo sfumato e sempre attento agli ideali di fondo, in qualche modo prevista da Enrico Berlinguer, ha finito per trascinare con sé anche il liberismo ideologico, questa lezione è quanto mai di attualità. Basta riuscire a capire come riusciremo, attuandola, a venirne fuori: possibilmente non riproponendo il revival di ideologie defunte di qualsiasi colore, ma riuscendo veramente a inventare qualcosa di nuovo. La Terza Via, appunto, che alle nostre latitudini viene più complicata di altre, come quella peronista argentina o quella tuttora dittatoriale cinese.
On. Mannuzzu, leggo molto volentieri i suoi scritti che trovo molto interessanti come Procedure autografatomi nel 1998 durante un suo passaggio presso l’aereoporto di Alghero, gli rispondo con una poesia tradotta in lingua Italiana:
SE QUESTA E VITA
L’ombra silenziosa della vecchiaia, come un recluso
m’ha rinchiuso in casa notte e giorno.
Ma come luce del cuore tengo a te
…che mi dai care strenne d’amore:
come delicate perle di brina
sembrano doni di fate che ho in più.
Niente pretendo perché sono fortunato
D’averti come angelo custode.
Sei pure come moglie degna di lode
Che non tutti, come me tengono al fianco:
dove seguono uniti il viaggio
t’ ammiro come sincero innamorato.-
per mezzo secolo da te ho ottenuto premure
a ogni ora, amandomi mi stai ancora
aiutandomi a vivere giorni più sereni
dove sole e oro e lune piene
non han baciato, in gaudiose tristezze.
M’hai regalato tesori di figlie
che le tele dell’anima mi hanno dipinto
Con galani nipoti m’hanno circondato,
nel mio giardino di ricordi luccicano come candidi gigli.
Anche in molti sogni che svaniscono,
ti vedo come un pegno brillante nel tempo
perché ho stima in te che sempre cresce,
Solo tu acutisci le mie pene.
Che oggi mi tessono trame di tormento.
E non ti stanchi quando in mano a Dio
Per me le speranze deponi.
Segnali d’amore immenso non mi neghi
e ti sono grato; e mi rendo conto
che sei la luce del mio cuore.