Un anno e mezzo fa la Sardegna si era mobilitata per salvare l’Alcoa, e adesso siamo punto e a capo. Ma a quanto pare stavolta gli americani non vogliono sentire ragioni. La fabbrica di alluminio di Portovesme è in forte perdita, e quei quattro o cinque signori che stanno a Pittsburgh devono rendere conto agli azionisti, mica al Sulcis. Può piacere o no, ma non venitemi a dire che credete nella responsabilità sociale delle imprese, nel capitalismo dal volto umano, e a cose così. Perché, se ci credete, siete pregati gentilmente di non frequentare più questo blog.
La decisione peraltro era nell’aria. Tutti i politici sapevano (e lo dicevano perfino, anche se a microfoni spenti) che alla fine della tregua siglata nel 2009 gli americani avrebbero lasciato la Sardegna. E infatti.
Ora un po’ tutti si chiedono: ma perché nel frattempo non è stato fatto niente per non arrivare impreparati a questa situazione? Non si poteva elaborare “un “nuovo modello di sviluppo”? Risposta breve: come se “un nuovo modello di sviluppo” si potesse elaborare in un anno e mezzo. Come se lo potesse elaborare questa Giunta regionale. Come se le classi dirigenti della Sardegna oggi avessero la lucidità e la forza per farlo. E poi, siamo sicuri di potercelo permettere questo benedetto “nuovo modello di sviluppo”?
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Qualche giorno fa, subito dopo l’annuncio di Alcoa, il mio amico Gianluca Floris ha postato sul suo blog una dura invettiva (poi integralmente ripresa da Michela Murgia) dal titolo “Chiude l’Alcoa e penso a quel rompicoglioni di Cicito Masala”.
Io non penso che Masala oggi ci aiuti a capire quello che sta succedendo a Portovesme e il processo di deindustrializzazione in atto. Masala si muoveva infatti su un piano utopico, letterario. La sua era, a mio avviso, una denuncia fortemente ideologica contro le imposizioni del capitalismo che si innestavano (in Sardegna come dappertutto nel sud Italia) su una civiltà preindustriale, creando evidenti sconquassi. Un vero e proprio terremoto antropologico, secondo Masala. Ma è andata veramente e solamente così? Quella stagione è stata completamente negativa per la Sardegna? Poi ci torneremo.
Peraltro, prendere alla lettera Masala dovrebbe portarci, per coerenza, ad accettare anche la sua mitizzazione della civiltà nuragica, intesa come età dell’oro per la Sardegna. Perché per lo scrittore le industrie non dovevano proprio nascere nell’isola, ma si sarebbe dovuta sviluppare un’economia basata sull’agricoltura ma soprattutto sulla rete delle nostre piccole comunità. Insomma, lo scrittore ipotizzava una società completamente diversa, utopica (dunque irrealizzabile, se non altro in quel determinato momento storico), e all’interno di questo contesto lanciava il suo celebre anatema al Dio Petrolio.
Il valore letterario di Masala non si traduce dunque automaticamente in lezione politica. La sua è una interpretazione poetica degli anni della Rinascita, non certo una indicazione di carattere storico. Questo non significa che alcune intuizioni di Masala non fossero giuste. Ma a confondere la Storia con la Letteratura (e ancor peggio, con la Geografia) si rischia di essere bocciati. O di non sapere esattamente a che punto si è della storia (e infatti c’è ancora gente in Sardegna che cita ancora Carlo V e i suoi maledetti pocos, locos y mal unidos).
La verità è che la Storia siamo noi, ma anche loro. In altri termini, non si può dividere il mondo in due, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, le cose giuste da una parte e quelle sbagliate dall’altra.
Nel suo blog, Roberto Bolognesi ha appena postato un pezzo dal titolo “Ribelli o servi?”. Si parla di noi sardi e della nostra storia antica, e il refrain è sempre lo stesso: perché in quanto a corsi e ricorsi, a noi isolani modestamente Vico ci fa una pippa, visto che nell’immaginario nostrano ogni processo storico ha una dinamica molto semplice: loro ci invadono e noi veniamo invasi. I sardi come gli indiani in un infinito film western, dall’epoca nuragica a Silvio Berlusconi.
Ma è andata sempre e solamente così? Loro hanno costruito le fabbriche e noi le abbiamo subite? E dalle fabbriche volute negli anni della Rinascita discende l’attuale disastro?
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Gli anni della Rinascita sono stati molto travagliati, e vi consiglio la lettura del saggio di Sandro Ruju sul volumone dedicato alla Sardegna dall’Einaudi, per comprenderlo. Che la Rinascita abbia fallito era evidente anche a molti intellettuali dell’epoca (Pigliaru in testa). Ma il fallimento dell’Alcoa non è il fallimento del Piano di Rinascita. Eppure oggi c’è chi si scaglia contro le industrie nate negli anni ’60, quando dovremmo invece riflettere su come quel processo di industrializzazione è stato condotto.
In giro si sente dire: “Chiudiamo le fabbriche di Portovesme e bonifichiamo!”, “Chiudiamo la Saras!”. Ma lo sapete quanto costano le bonifiche ambientali? Centinaia e centinaia di milioni di euro. Sarebbe molto più economico convincere l’Alcoa a restare.
Ma la retorica masaliana, da feconda provocazione contro il sistema capitalistico, è diventata un luogo comune di vacuo orgoglio isolano. Ormai ogni nuova fabbrica che nasce in Sardegna è una “cattedrale nel deserto”, e viene percepita come lo stravolgimento dei nostri valori. L’industria è il simbolo della negazione della nostra identità. Ma perché? Ma quando mai? Parafrasando Bolognesi, “perché i Sardi dovrebbero sempre essere differenti dagli altri popoli, sempre speciali?”. Per quale arcano motivo, la Sardegna doveva restare esclusa da quel tumultuoso e contraddittorio processo di industrializzazione che ha caratterizzato il secondo dopoguerra europeo? Perché le industrie dovrebbero lasciare la Sardegna?
Per nessun motivo. Ed è anche per questo che i sindacati e la sinistra non hanno in buona sostanza elaborato negli ultimi anni nessun nuovo modello di sviluppo della Sardegna. Perché quello ereditato dalla Rinascita, nel bene e nel male, gli andava benissimo. Perché quelle grandi fabbriche impiegano centinaia di lavoratori e farne a meno è praticamente impossibile. Nessun nuovo modello può, nel breve periodo, assorbire i lavoratori dell’industria. E con il livello di infrastrutture e di istruzione presenti in Sardegna, forse neanche in un medio periodo.
Il futuro dello stabilimento di Portovesme è dunque quello di essere acquisito da un altra società, non ci sono alternative. D’altronde, come ci ha ricordato ieri Salvatore Cubeddu su Sardegna 24, la stessa Alcoa era subentrata nel 1996. Ora il governo Monti si deve impegnare a mantenere in vita la produzione dell’alluminio. Niente di più, niente di meno.
In Sardegna invece è esploso uno psicodramma. Da una parte non si fa alcuno sforzo concreto per immaginare un futuro che si avvicina sempre di più e nel quale l’industria di base rischia di non avere posto. Dall’altra, l’industria viene vista come la causa dei nostri mali, e viene maledetta. Salvo poi mobilitarci tutti per la Vinyls e fare il tifo per gli operai autoreclusi all’Asinara. Non abbiamo le idee molto chiare, evidentemente.
E se domani l’Eni impazzisse e decidesse di riaprire il petrolchimico di Porto Torres, con i suoi diecimila lavoratori diretti e indiretti, noi saremmo a favore o contro? Chi avrebbe il coraggio di dire di no?
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Figuratevi allora negli anni ’60. Ruju ci racconta bene cos’era la Sardegna di allora. Devastata dalla miseria, con i giovani che emigravano in modo massiccio, con un tasso di analfabetismo alto e una criminalità feroce. Fra mille contraddizioni, il processo di industrializzazione ha indubbiamente portato benessere e creato una cultura di classe in un’ampia fascia di popolazione. Ha dato un nuovo ruolo alle donne e ha portato nell’isola una nuova cultura del lavoro.
Ha devastato la cultura sarda? Ha distrutto la nostra identità? Lo ha fatto veramente o quel processo di cambiamento era inevitabile? E soprattutto, di che identità stiamo parlando? Quella statica della costante resistenziale di Giovanni Lilliu, o quella mobile e sfuggente de Il figlio di Bakunin di Sergio Atzeni?
Il dramma della Rinascita (e questo lo dico io) è che in Sardegna si è giocata una partita enorme che ha visto in campo i colossi dell’industria e della politica nazionali. E allora è subentrata (in senso lato) la corruzione. Le classi dirigenti sarde sono rimaste schiacciate (nel migliore dei casi) o sono state complici (nel peggiore) del tradimento della Rinascita, con le risorse destinate praticamente solo alla chimica di Rovelli. Ma gli interessi erano enormi. E quella classe politica è stata miseramente travolta.
Il quadro era terribilmente complesso e Michela Murgia pecca di ideologismo quando lo semplifica fino a banalizzarlo, scagliandosi in maniera diretta contro Pietro Soddu. Gli indipendentisti ogni tanto sono così: ritengono che tutto quello che è stato fatto finora per l’isola è stato fatto in modo sbagliato. La loro è una cattedra comoda. Ma se la Sardegna non è indipendente è solo perché in sardi finora non lo hanno voluto abbastanza, e non perché qualcuno ha impedito loro di autodeterminarsi. Se non si esce dalla dicotomia “servi o ribelli” non andremo mai da nessuna parte.
Ed è per questo che dico che rinunciare a quel processo di industrializzazione (con tutte le sue contraddizioni) sarebbe stato da irresponsabili. Meno male che c’è stato il Piano di Rinascita, meno male che sono nate le industrie. Non avere nulla sarebbe stato molto peggio. E anche oggi, pensare ad una Sardegna senza industrie, serve forse a fare bella figura su Facebook ma dal punto di vista politico non ha nessuna attinenza con la realtà.
Certo, le fabbriche di Portovesme inquinano. Ma nel tavolo delle trattative proprio questo ci deve essere, non certo lo smantellamento di un sistema produttivo.
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Alternative al momento non ce ne sono. La Sardegna può e deve difendere con le unghie e con i denti l’Alcoa e tutte le altre industrie che rischiano di chiudere. Ogni nuovo modello di sviluppo necessita di infrastrutture e di un livello di istruzione che al momento la Sardegna non ha, e che potrebbe raggiungere in non meno di dieci anni.
Dove sono le forze intellettuali e politiche in grado di elaborarlo, e non solo di evocarlo?
Il Piano di Rinascita si è avvalso del contributo critico di di intellettuali come Antonio Pigliaru e del gruppo di Ichnusa, di Michelangelo Pira. La scena politica isolana era dominata da Renzo Laconi, Paolo Dettori, Antonio Segni, Sebastiano Dessanai, il giovane Cossiga, Pietro Soddu, Michele Columbu, Emilio Lussu, e chissà quanti altri mi sto dimenticando.
Una classe politica vera e intellettuali veri che immaginarono un futuro per la Sardegna. E oggi chi dovrebbe fare uno sforzo identico, se non superiore? I politici di razza e gli studiosi in grado di dare un contributo concreto si contano veramente sulle dita di una mano. e quel che è peggio, non abbiamo a disposizione quelle enormi risorse che lo Stato ci mise a disposizione negli anni del secondo dopoguerra. Oggi i soldi sono finiti.
Il dramma della Sardegna non sono solo le industrie che chiudono, ma l’assenza di un dibattito serio sul nostro futuro. A differenza di quella degli anni ’60, la nostra classe politica non ha più alcun peso nei centri decisionali italiani ed europei. Il fantomatico “nuovo piano di sviluppo per la Sardegna” è solo uno slogan che i politici tirano fuori nei momenti di disperazione come questo. Perché non contiamo niente e non elaboriamo più niente. E si vede.
Il progresso umano dipende dal fatto che l’uomo riesca a elaborare soluzioni creative ai problemi cercando di imparare dai propri errori. Ora, in contro tendenza con Masala, ma con l’analisi dei dati storici, si difende ancora un’industria energivora, a alto impatto ambientale (se i soldi degli stipendi devono essere spesi in chemioterapia possiamo ancora dire che il lavoro in fabbrica è una benedizione?) che nel breve medio e lungo periodo ha generato disastri socioeconomici (i primi cassaintegrati datano al 1974, l’indomani della realizzazione di Ottana). Parlando di Masala la sua idea di sviluppo economico basato sulle risorse esistenti e sul territorio (filiera turistica, agroalimentare, energie rinnovabili, artigianato e filiere connesse per indotto basterebbero all’occupazione di una popolazione che è un terzo di quella della città di Roma), era l’alternativa migliore a un tipo di economia da terzo mondo dove importiamo materie prime ad alto costo, per creare prime lavorazioni a basso profitto, che serviranno per prodotti finali che noi importeremo a caro prezzo (v.petrolchimico). Il discorso, non è se gli industriali sono buoni o cattivi, ma se questa industria ha un futuro. La difesa del lavoro è sopratutto la difesa dei lavoratori, e deve essere fatta con progetti a lungo termine, non con “piani di rinascita” che divorano i fondi regionali e non tenendo conto delle risorse necessarie alla sostenibilità economica sfamano se va bene una generazione e mezzo, lasciando alle generazioni a seguire inquinamento, disoccupazione e compromissione di altri sbocchi (quanto ci costa la riconversione a fini turistici o agricoli delle servitù militari e industriali? Qual è la spesa regionale per le malattie derivate dall’impatto ambientale del petrolchimico? Se questi soldi sprecati in favore degli industriali,li avessero distribuiti alla popolazione, avremo il redditto procapite di Dubai, altro che stipendietti da operai. Per concludere nello smantellare il pensiero di Masala, che anche da anziano era più giovane di molti “giovani” contemporanei, si tacciano le sue idee di utopia forse senza sapere il significato di questa parola. Etimologicamente il termine può significare due cose: luogo felice (eu topos) il che mi sembra un’ambizione legittima per la Sardegna, o luogo inesistente (ou-topos) ovvero qualcosa che ancora deve essere creato. Del resto quando l’uomo primitivo abitava nelle grotte, non esistevano le case. Con l’evoluzione ha imparato a creare luoghi prima inesistenti: palafitte, case, palazzi, strade, vie di telecomunicazioni, non caccia più mammut, e non pratica il cannibalismo di massa. Se come lui, l’uomo primitivo, si fosse fermato all’esistente, senza immaginare come migliorarlo staremo tutti ancora nelle grotte, e l’evoluzione e il progresso dell’umanità sarebbe stata cosa impossibile. Forse dovremo imparare dai nostri errori, restare umani, per creare condizioni migliori anziché continuare a girare, come criceti da laboratorio, dentro la stessa ruota, correndo per non raggiungere nessun luogo.
Concordo con Vito (non ho letto i commenti). La “Rinascita fallita” è il titolo di un libro di Marcello Lelli, sociologo romano ma con cattedra in Sardegna, del 1974. L’anno del secondo Piano di Rinascita quindi un parto già pilotato (Rovelli ect ect ect…). Nonostante tutto l’industrializzazione però c’è stata, nel bene e nel marcio (prevalentemente politico ma non solo). Illuminanti le parole di un ex pastore ed ex operaio di Fonni che ho intervistato nel 2004. Lui aveva fatto la transumanza dal Gennargentu al Campidano, lui aveva fatto l’operaio per le grandi opere del primo piano di Rinascita, lui era entrato in fabbrica ad Ottana nei primi anni settanta. E finalmente perchè “C’era lo stipendio sicuro, si poteva programmare il futuro, non si lavorava sotto la pioggia e il freddo, si conoscevano persone di ogni paese e nacque una comunità”. Tutto questo non è poco.
http://www.regione.sardegna.it/j/v/25?s=185618&v=2&c=125&t=1
Sul termodinamico- Si fa così!
Lode all’attuale servizio energia della RAS, ANCHE SE è GOVERNATO DA GENTE CHE NON CI è SIMPATICA.
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Candidature per la realizzazione di impianti solari di pubblica utilitàPubblicato un avviso per la presentazione di manifestazioni di interesse alla realizzazione e gestione di uno o due impianti a tecnologia solare termodinamica a concentrazione. Entro il 26 febbraio 2012, consorzi industriali e comuni della Sardegna, singoli o associati, potranno presentare le proprie candidature.
Ti sei dimenticato nella tua ricostruzione storica di quanto ci è costato sul piano quel piano di rinascita di cui parli e che ha avuto nell’allora gruppo “moderato” l’elemento di svendita del nostro territorio. “Ti do qualche fabbrica, ma tu mi permetti di costruire un poligono qui e non lì, qualche sovvenzione ma tu non mi rompi le scatole con proteste per i vari massoni and co.
Nella tua ricostruizione ti sei dimenticato di menzionare quello che è stato un movimenta di rinascita e di indipendenza (mentale), che ha caratterizzato il periodo precedente Cappellaci. Ma che i sardi non hanno capito (o non hanno voluto capire), perchè fa molto più comodo, ha fatto molto più comodo credere alle promesse delle telefonate a Putin.
Se ti chiedi come mai niente è stato fatto in questi due anni, chiedilo ai lavoratori. Chiedi pure chi hanno scelto nel segreto dell’urna alle ultime politiche.
La Storia siamo noi, hai ragione, ma con la dovuta contestualizzazione, i sardi sono stati sempre pronti a NON decidere autonomamente, ma ad aspettare le decisioni dall’alto.
Vuoi un esempio?
Chiediti perchè la Sardegna non è stata inserita, come Regione Autonoma, nell’ultimo decreto sulla mobilità scolastica, (e nessuno ha protestato), mentre ValD’Aosta, Trentino e Sicilia decidono per il loro territorio. I sardi hanno scelto uno zerbino al governo della loro isola ora raccolgono la polvere che viene lasciata sullo zerbino.
Questo è il paese dove un manager di nome Marchionne ha portato in utile e a nuova vita un’industria che era data per fallita. Lo stesso manager ha proposto nuove regole sindacali per andare avanti. Gli hanno piazzato un casino! Giusto o sbagliato che sia. Inutile entrare nel merito in questa sede. Lo stesso manager, rottosi di balle, avendo avuto l’opportunità di globalizzare l’azienda si è accollato un rischio enorme (Chrisler) e, per il momento, ha avuto successo. Quindi, il nostro manager, pensando di fare il suo mestiere sta spostando il baricentro delle attività della sua azienda verso paesi dove riesce a sopravvivere con maggiori probabilità di riuscita.
Il nostro manager, machiavellico ma efficace, va avanti. Nel contempo alcuni osannano Landini e FIOM ma nel contempo piangono la mancanza di lavoro. Il mondo globalizzato però va avanti e ci tritta.
Non esprimo giudizi, do una lettura possibile dei fatti.
L’ALCOA fa il suo lavoro. La Sardegna e i Sardi l’hanno fatto?
Panta rei … Abbiamo industrializzato ottenendo dei benefici evidenti ma, anche, dei disastri enormi che in gran parte abbiamo furbescamente scaricato sulle generazioni a venire, quindi sul territorio.
Gran parte dei nostri mali sono causati da noi e dal nostro grado di corruzione culturale e civica, dalla nostra ignoranza e indolenza, dal nostro scarso rispetto di noi stessi (il prossimo) e, in una certa misura, dal nostro atteggiamento che non sa rinunciare e tanto meno decidere per il meglio … dei nostri figli.
L’inconcluso articolo non dice cos’è meglio in conseguenza degli enunciati.
Attacchiamo il GALSI ma vogliamo uno sviluppo industriale.
Accettiamo la corruzione di fondo che sottostava all’accordo di programma del termodinamico.
Contestiamo il cemento, il golf, la movida, ma vogliamo uno sviluppo turistico.
Vogliamo le filiere corte e il biologico ma compriamo le belle e buone mele cilene.
Il “Modello di sviluppo” non è un mito ma semplicemente POLITICA.
Qui però siamo ancora “alle categorie marxiste” e alla lotta di classe. Serve una una classe dirigente? MA di che? di nomenclature marxiste! … ma fattemi il piacere.
Con la sostenibilità? Questo è ormai un concetto vecchio. In ambito scientifico si parla di adattabilità!
Esistono esempi di paesi che vanno avanti con devastazioni sociali e ambientali minori delle nostre. Non sono marxisti ma hanno un senso del civico enormemente superiore. Semplice.
La domanda assertiva che Biolchini, sostanzialmente, mi pare proponga, è:
ABBIAMO BISOGNO DELL’INDUSTRIA!?
Se la risposta è positiva ho bisogno di capire con quali risorse finanziarie e sociali possiamo averla, perché tutto ciò che sin qui abbiamo creato è fatto senza alcun accumulo di risorse, semplicemente a debito, pubblico finanziario e ambientale. Questo è un dato, non una percezione.
Se la risposta è negativa spesso, ahime! essa viene da pletore di gente che non ha mai lavorato in vita propria e che ha vissuto da parassita fra caste e servilismi clientelari, sparsi fra colori neri e rossi, comunisti e fascisti, ma sempre e comunque paraculi alla Alberto Sordi, che tanto piace alle genti italiche.
La via di mezzo: Dipende. Dipende dal modello di vita che ci proponiamo e dal tipo di ambiente sociale e naturale che vogliamo lasciare ai posteri. Su questo, come ho cercato di evidenziare, c’è molta confusione.
Personalmente penso che il Modello di Sviluppo non sia un mito ma che noi abbiamo l’obbligo di elaboralo e di proporlo ai Sardi, a noi stessi. In un continuo sforzo di miglioramento
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Che devo dire? Hai tracciato un quadro storico essenziale, spietato ma reale del nostro presente. Coincide in alcune parti in modo totale con l’interpretazione storica che io, insieme a pochissimi altri amici e colleghi, andiamo ricostruendo per il Medioevo sardo (e quanto mi manca, fin da ora il caro amico e collega Roberto…).
Ho proposto considerazioni simili in alcuni studi recenti e in via di pubblicazione su alcune riviste nostrane e internazionali. Da quel che ho visto finora si sta riproponendo il solito cliché: praticamente ignorato in Sardegna, seguito con interesse, negli Stati Uniti, in Spagna e in Frnacia, dove attualmente sto lavorando con l’Università di Corte (e anche lì la lotta contro i luoghi comuni è davvero ardua ma non impraticabile).
Avremo modo di tornare su tutto ciò, al mio ritorno.
Un caro saluto
Chapeau.
Forse quanto detto sulle connivenze dei dirigenti locali che ha portato al fallimento del piano do Rinascita o per lo meno a non sfruttarne le enormi potenzialita’ o ricadute sociali e’ fin troppo blando.
Ma cosa dovrebbe fare un manager? Continuare una produzione in perdita a causa di costi dell’energia elettrica tra i più alti a livello mondiale? In un paese dalla pressione fiscale elevatissima (per avere dei servizi e delle infrastrutture mediocri), con dei sindacati che pensano di vivere negli anni ’70. In un paese dove un’azienda deve difendere in tribunale il proprio diritto di licenziare gli operai che sabotano la catena di montaggio durante gli scioperi. In un paese con una burocrazia asfissiante.
ALCOA, che è unindustria altamente energivora, poteva produrre in Sadegna solo perché la bolletta gliela pagavamo noi. E, a parte il fatto che questo sia giustamente vietato dall’Europa, non mi sembra ugualmente un buon modo di spendere il denaro pubblico. Paghiamo oggi l’assenza di una politica industriale a lungo termine, non sarda, ma italiana.
Io non mi sento di biasimare minimamente un industriale che delocalizza.
Riguardo all’economia basata sull’agricoltura, i suoi fan dovrebbero esultare, perché di certo gli ex-operai ALCOA avranno un sacco di tempo libero per dedicarvisi.
“Gli indipendentisti ogni tanto sono così: ritengono che tutto quello che è stato fatto finora per l’isola è stato fatto in modo sbagliato. La loro è una cattedra comoda.”
Già, è tutto il giorno che penso all’estrema scomodità della cattedra di chi difende i posti di lavoro di questo tipo di industria in tutto e per tutto. È estremamente scomodo andare dagli operai e dire che i loro posti non devono essere toccati, ricevendo in cambio fragorosi applausi oltremodo fastidiosi. Gli indipendentisti invece non glielo dicono e ricevono comodi insulti. Facile così, no?
Non apprezzare la genialità del sovvenzionare a più riprese con fondi pubblici delle industrie energivore perennemente in perdita in un posto in cui l’energia costa fisiologicamente di più è da folli. L’importante è chiudere uno o entrambi gli occhi di fronte ai disastri ambientali determinati soprattutto dal fatto che, essendo già in perdita, ovviamente andranno a risparmiare sulla tutela ambientale e sui controlli. A parole però bisogna chiedere di non inquinare, di riassumere tutti, pagare le tasse e rispettare tutte le cervellotiche regole del paese più incivile d’Europa. Il tutto ovviamente seduti dietro la scomodissima cattedra di chi ritiene questo tipo di industrializzazione cosa buona e giusta.
lei non vive con 500 euro al mese, vero? non sa come si fa? anche questo è economia, sappia… e se lei si prende premura di non biasimare l’industriale che delocalizza, si prenda la premura di capire come dovremo fare noi
Lavoro per tutti nelle bonifiche? Perche` no! Se anche da noi, a Portotorres, Ottana, Portovesme e aggiungo Quirra, vale il principio che chi inquina paga abbiamo lavoro vero per almeno 20 anni. Ovviamente bisogna avere le palle per fare rispettare questo sacrosanto principio per non fare la fine dei povericristi indiani di Bhopal.
Vorrei sommessamente ricordare che l’industrializzazione di aree importanti del mondo e dell’Italia (Marche, Veneto, così a caso) si è fatta nonostante la carenza di una chiara politica industriale. Lo scrivo così, giusto per rompere le scatole e incasinare il quadro che voi assumete come base, per cui “data una politica, ottenuti certi esiti”. Infatti molte politiche di quel tipo sono fallite.
Non mi sembra che questo assunto di base dei vostri ragionamenti sia così solido. Lo dico così, giusto per rompervi le scatole. Erano sbagliati i piani, o è stata fallimentare la loro articolazione, la loro trasformazione in pratiche, in routine, in fenomeni industriali sostenibili nel mercato?
Le politiche di industrializzazione della Sardegna, al di là delle loro intenzionalità, hanno prodotto quello che abbiamo, un fallimento, mutamenti profondi in un sacco di ambiti, alcuni positivi, altri no. Ad esempio a mio parere è positivo lo sviluppo di saperi tecnologici, o di culture organizzative. Però i riscontri negativi non mi sembrano così trascurabili. Però sarei curioso di capire che cosa sia oggi l’industria in Sardegna, al di là delle idee di Pietrino Soddu a suo tempo.
Io ho avuto una formazione marxista, per cui sono abituato a ragionare “partendo dal presente storico”, e quindi non in modo meccanicamente causalistico, come usa nel cristallizzato dibattito pubblico sardo. Al di là di molte altre cose che non condivido assolutamente più, questo mi sembra invece un ottimo principio.
infatti bloccare il solare termodinamico è da idioti….ma in sardegna si è sempre puntato su una industrializzazione fallimentare, antieconomica, perchè non si è mai investito sull’industria alimentare?
anche le bonifiche sono un’occasione di lavoro e l’onere dovrebbe spettare per legge all’industria che chiude,è sbagliato predenderlo? o è più giusto far campare di finanziamenti pubblici industrie che sarebbero già chiuse?
è ben triste assistere alla dissoluzione di un polo industriale che avrebbe potuto aver maggior fortuna
se qualcuno avesse capito che occorreva tenere la filiera produzione allumina-produzione alluminio corta, non solo nel senso logistico del termine ma, soprattutto, nel senso della proprietà e, quindi, conduzione;
se qualcuno avesse cercato di fermare lo spezzatino che ora risulta indigesto e non far arrivare…l’amico putin;
l’euroallumina prima e ora l’alcoa lamentano prezzi dell’energia troppo alti; con seguito di aiuti di stato di cui l’europa chiede la restituzione, sicuramente c’è di vero, ma è anche vero che è tradizione di molte multinazionali evitare, dopo gli anni del pieno sfruttamento degli impianti e relativi guadagni, di dover spendere grosse cifre per radicali ammodernamenti degli stessi…
…meglio cercare nuovi paesi dove…cominciare d’accapo (con gli aiuti dei nuovi paesi)…
è grazie allo spezzatino di proprietà che la sardegna non può usare l’unica carta che ha in mano:
– volete andar via? restituite una quota degli aiuti incassati dall’inizio e addio…
– alimentare l’euroallumina, anziché a bauxite, con l’alluminio della raccolta differenziata sarda e continentale: avremmo un risparmio energetico pari al 95% ben superiore al 25/30% che chiedono euroallumina e alcoa…
– e come regalo il 95% delle emissioni inquinanti in meno e risolto, per il futuro, il problema dei fanghi rossi…magari, accantonando ogni anno un 5% del valore del risparmio avuto, potremmo risolvere gran parte dei problemi derivanti da decenni di inquinamento…
non è anche questa la green economy? le idee sinora sentite in sardegna sono solo palliativi, promesse colossali dai piedi d’argilla; ma forse è proprio questo che vogliamo:
che continuino a raccontarci favole così possiamo discutere di paolovillaggio, del cagliari calcio e delle cose che ci “appassionano” davvero
Non ci posso credere: un giornalista che ha realizzato la pochezza del mondo intellettuale isolano! Adesso nevica!
Sì, dell’industria abbiamo bisogno e non volerlo riconoscere è da stupidi, tuttavia abbiamo anche bisogno di una politica di indirizzo industriale, quindi di una classe dirigente in grado di proporla (non uso l’indicativo a caso).
Sfortunatamente – per abitudine maturata negli anni – siamo tutti convinti che il giochetto di accollare le perdite industriali alla collettività sotto la spinta dell’emergenza possa andare avanti indefinitamente ed è proprio questo il motivo dello sviluppo di una banda di pseudointellettuali da operetta di cui Lei ha fatto, correttamente, nomi e cognomi. Attenzione: essi esistono perché c’è l’operetta, cioè ci siamo noi! Siamo talmente abituati all’arrivo del Settimo Cavalleggeri alla fine del film, che neppure pensiamo possibile che possano essere gli indiani a vincere (ne era convinto anche Custer), quindi ci balocchiamo con categorie che stonerebbero nel quarto mondo, a partire dalla voracità centralistica romana di bossiana memoria, fino alla promozione della Limba come panacea universale per i nostri mali.
Mi faccia il nome di un altro posto in cui di fronte al disastro evidente si citano intellettuali del calibro di Bolognesi o Murgia (e perché non Pippo e Nonna Papera?) come personaggi capaci di un’interpretazione dignitosa della realtà. Non ci riesce? Ci provo io, se me lo permette e non sono troppo invadente (l’ho scritto nel 2010):
http://exxworks.wordpress.com/2010/05/30/quanto-distano-le-comore/.
La prego, dopo aver scritto un pezzo in cui manifesta di essersi accorto come stiamo esprimendo intellettuali che non stonerebbero a Zelig, non lasci cadere il tema: abbiamo bisogno, prima di tutto, di un buon esame di coscienza, tutti quanti, a partire dal fatto che il modello dello spreco inverecondo di soldi pubblici viene combattuto, se non si riesce a mettere le mani su una parte, anche piccola, dei denari o condiviso nel caso opposto. Piantiamola di imputare ad altri (soprattutto ‘italiani’) i nostri mali e rivolgiamoci alle nostre cattive abitudini.
Su alcuni dettagli del suo pezzo che non mi trovano d’accordo lascio correre con grande piacere, però due piccole osservazioni:
1) non saranno ‘intellettuali’, però cassandre che vanno dicendo da anni che bisognerebbe pensare all’industria ce ne sono; poche, sparute e irrilevanti, ma ci sono.
2) se un anno e mezzo fa, assieme alla soluzione transitoria dell’accordo ALCOA, la classe dirigente avesse cominciato a pensare al futuro, avremmo evitato di perdere un anno e mezzo; vediamo di non dimenticarlo. Di una politica industriale abbiamo bisogno e non è detto che Custer continui ad arrivare: potrebbe anche capitare che sia occupato al Little Big Horn e non possa pensare a noi. Ciò detto – e a scanso di equivoci – auspico anch’io una soluzione contingente per lo stabilimento di Portovesme.
Complimenti per l’articolo.
Caro Vito,
credo che la Sardegna debba avere una politica industriale e, quindi, una industria. Ora comincerà un braccio di ferro con ALCOA, governo e Unione Europea, e lo dobbiamo vincere. Mantenere le produzioni, mantenere i posti di lavoro e mantenere una prospettiva di vita (nel senso di esistenza) debbono essere, nell’ordine, i nostri fari.
Per farlo abbiamo bisogno di molta unità e, contemporaneamente, di estrema discontinuità. Senza la discontinuità, sia nella prospettiva che nelle persone, non faremo un passo avanti. Al massimo, altrimenti, garantiremo le buste paga per 1/2 anni.
Abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente.
Chi ha fatto la scelta di vita di dedicarsi al proprio popolo su questo dovrebbe lavorare.
Enrico
Alla luce di questo (la chiusura Alcoa e gli scenari distopicamente agghiaccianti descritti da Vito) la decisione della Regione di bloccare il solare termodinamico appare a dir poco scellerata. Ricordo una scritta su un muro di Mandas, saranno stati gli anni 1974-1975: Regione sarda, ladra e bugiarda.
Ladra di sogni, aggiungo io, e bugiarda fino al midollo. Ora direi anche scellerata e smidollata.