Sardegna

Non bastano scuole nuove: serve un patto per ridare protagonismo ai giovani sardi

 

Ogni tanto esce un articolo, un’analisi, un dato. L’ultimo, diffuso nel mese di agosto, fa venire i brividi: lo scorso anno l’11,4 per cento degli studenti sardi che frequenta le scuole superiori è stato bocciato. È il dato di gran lunga peggiore fra tutte le regioni (la Campania ci segue con l’8,6 per cento). Sui giornali sardi però non c’è stato alcun dibattito, alcuna riflessione collettiva su questo dramma che evidentemente riteniamo ineluttabile.

Certo, non possiamo dire che la giunta Pigliaru non abbia consapevolezza del problema, visto che con il progetto Iscol@ sta provando dare una risposta al problema della dispersione scolastica. Quali che siano gli strumenti messi in campo, appare evidente però che un problema di tali proporzioni non può essere delegato né alla politica né ai professionisti dell’istruzione. Un disagio così profondo deve essere preso in carico dall’intera società sarda, proprio perché è dall’intera società che è causato. Questo sta avvenendo? Direi di no.

Esiste in Sardegna il problema della condizione giovanile che però rimane nascosto e non si verbalizza neanche davanti a fatti di cronaca (pensiamo solo alla tragedia di Orune) che pure potrebbero innescare la riflessione. Perché?

Una recente ricerca commissionata da Sardegna Solidale alla Fondazione Zancan (“La povertà educativa in Sardegna”) ne ha esplorato alcuni aspetti, mettendo in evidenza ad esempio il disagio maggiore delle ragazze rispetto a quello dei loro coetanei maschi. Dati che attendono riflessioni e politiche giovanili innovative. Intervenire sull’edilizia scolastica non basta e ciò che serve non è solo affare della politica ma di tutto noi: anche di chi ritiene di non poter far nulla o di non avere ruolo.

Chi lavora con i giovani fa i conti ogni giorno con la loro insicurezza. Alla trasmissione di saperi e competenze si affianca ormai (quasi ad assumere un peso preponderante) la necessità di spronarli a credere nelle loro evidenti capacità. Ma anche i giovani che hanno un talento purissimo, fanno fatica a riconoscerlo e soprattutto, ad accettarlo. Ragazze e ragazzi appaiono demotivati, e l’adulto che vuole aiutarli deve sempre più vestire oggi più i panni dello psicologo, del motivatore, del coach.

Davanti a questa situazione servirebbe un patto tra tutte le componenti della società sarda per rimettere i giovani al centro dei nostri interessi: tutto quello che facciamo, facciamolo pensando a loro, al loro futuro.

Ma soprattutto, facciamo di tutto perché i giovani riscoprano quel protagonismo che loro stessi spesso dimenticano. E questo si fa in maniera semplice: dando loro responsabilità concrete, coinvolgendoli nelle nostre attività con ruoli importanti, accettandoli nei nostri incontri fra adulti e dando loro la parola.

Non comprimari né comparse, ma protagonisti: a scuola, nella vita delle associazioni, nella politica, nell’informazione, nel sindacato. Anche se non hanno paura ad esserlo perché nessuno crede in loro e perché gli adulti occupano senza generosità tutti gli spazi sociali possibili immaginabili. Siamo pronti a questa rivoluzione?

Tocca soprattutto alla generazione che oggi soffre di più la crisi (cioè quella fra i 45 e i 50 anni, la mia), oggi pienamente adulta ma travolta dalla tragedia del precariato, il compito di essere generosa con gli under 25, di scovarli, di sollecitarli, di prepararli con speranza ad una vita che loro vedono piatta, senza prospettive.

Per aiutarli ad affrontare per tempo quelle difficoltà che a noi oggi appaiono insormontabili ma dalle quali loro non dovranno essere in nessun modo travolti.

 

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3 Comments

  1. SANDRO DEMELAS says:

    La Sardegna non è solo l’ultima d’Italia, ma si distingue in Europa, ad esempio, per un numero di laureati pari alla metà della media continentale. Le cause della scarsa istruzione sono, sia “strutturali” (in fondo, la funzione della scuola è tanto quella di insegnare, quanto quella di fornire un posto di lavoro agli insegnanti), sia legate ad un’ancora più scarsa coesione sociale, un male endemico sardo che, a ben vedere, è strettamente legato a molte problematiche giovanili. Quali che siano le cause, è urgente colmare il divario e portare la Sardegna in linea con la performance italiana, se non Europea. Colmare il divario non significa “prima, riformare la scuola”, secondo il tipico approccio universalistico. Serve una visione pragmatica come, ad esempio, darsi l’obiettivo sul breve periodo, di lavorare su quel 5% di studenti delle superiori che costituirebbero l’anomalia sarda. Ciò non toglie nulla, ovviamente, alle giuste considerazioni sulla condizione giovanile e sulla scuola in generale.

  2. Secondo me dovrebbe essere materia anche per sociologi, antropologi, psicologi per capire se realmente il problema è degli studenti o se i professori sono troppo severi.
    In mancanza di maggiori informazioni i politici farebbero danni.

    Nel primo caso abbiamo un problema, e sarebbe interessante capire se queste statistiche trovano riscontro anche nelle statistiche del passato. Oppure è un nuovo trend.

    Una scuola scollata dalla nostra realtà, a partire dalla lingua, dalla storia e dalla letteratura, non nostra, potrebbe essere una base di partenza.
    E’ incredibile che non si studi la Deledda o Satta o Montanaru. Gli scritti di Verga sono migliori di quelli del nostro premio Nobel?

    • Storia, lingua e cultura sono sempre nostre a prescindere, magari è giusto inserire Deledda e Satta, ma non per questo rinnegare Verga o qualunque altro grande scrittore appartenga alla storia del nostro paese…

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