Stimolato dal post del sociologo Marco Zurru (“Imprenditori deboli e incapaci di fare rete. Anche per questo la Sardegna è periferia d’Europa”), l’intellettuale e filosofo della scienza Silvano Tagliagambe ha inviato l’intervento che vi propongo, espressamente scritto per questo blog. Ringrazio il professore per la sua generosità e per la volontà di alimentare il dibattito su un tema cruciale per il futuro della Sardegna. Io, dopo aver letto questo intervento, ho capito qualcosa di più sul Progetto Eleonora che la Saras vuole portare avanti ad Arborea, ad esempio.
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Ha fatto bene Marco Zurru a evidenziare gli indiscutibili meriti del Rapporto sul Mercato del lavoro in Sardegna 2012, curato da Lilli Pruna, e inserirlo in una cornice che mette il dito sulla piaga delle molteplici ragioni della fragilità del sistema imprenditoriale nazionale e, in particolare, delle regioni del Mezzogiorno, all’interno delle quali la Sardegna occupa una posizione di particolare debolezza. Tra queste ragioni vorrei riprendere e sottolineare la funzione di quella che Zurru chiama la “pasta” della forza dei localismi produttivi e dei distretti industriali, vale a dire la cultura (e la pratica) delle reti, l’identità e la coesione sociale dei territori e delle comunità di appartenenza.
È necessario farlo, a mio parere, in quanto tutte le riflessioni e gli approfondimenti sui presupposti e sulle caratteristiche di una società capace di esprimere innovazione convergono nell’individuare, come suo tratto distintivo e aspetto caratterizzante, la centralità del nesso fra:
- innovazione;
- partecipazione;
- concertazione;
- sussidiarietà;
- istruzione/formazione
La relazione tra questi cinque fattori non è di tipo sequenziale, ma circolare, caratterizzata dalla presenza di processi di retroazione, cioè da un’interazione tra livelli in cui più alto torna indietro fino a raggiungere il più basso e lo influenza, mentre allo stesso tempo viene determinato da esso. Si ha così una risonanza tra i diversi livelli che si autorafforza.
Tratto distintivo di un ambiente innovativo è dunque la presenza di un complesso di relazioni circolari che portano a unità un contesto locale di produzione, un insieme di attori e di rappresentazioni e una cultura industriale, trasformandolo in un sistema organizzato, all’interno del quale si genera un processo dinamico e localizzato di apprendimento collettivo.
In questa prospettiva lo spazio, anziché essere inteso come mera estensione e distanza geografica, viene visto come spazio relazionale, cioè come contesto in cui operano comuni modelli cognitivi e in cui la conoscenza tacita viene creata e trasmessa; il tempo viene assunto in una dimensione che fa riferimento al ritmo specifico dei processi di apprendimento e di innovazione/creazione.
Perché si possa parlare di ambiente innovativo non basta dunque la vicinanza geografica. A essa si deve accompagnare necessariamente una prossimità socio-culturale, definibile come disponibilità di modelli condivisi di comportamento, fiducia reciproca, linguaggi e rappresentazioni comuni e comuni codici morali e cognitivi. Prossimità geografica e prossimità socio-culturale determinano alta probabilità di interazione e sinergia fra i soggetti individuali e collettivi, contatti ripetuti che tendono all’informalità, assenza di comportamenti opportunistici, elevata divisione del lavoro e cooperazione all’interno dell’ambiente: quello che chiamiamo il capitale relazionale di un territorio, fatto di attitudine alla cooperazione, fiducia, coesione e senso di appartenenza.
Nel quadro generale che si viene così a delineare l’accumulazione di capitale umano alimenta l’efficienza produttiva, sospinge la remunerazione del lavoro e degli altri fattori produttivi. Questo motore della crescita diviene ancora più rilevante nelle fasi caratterizzate da rapido progresso tecnico. Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia del 2006, notava fin dagli anni sessanta come l’acquisizione di un livello avanzato di conoscenze sia condizione essenziale per innovare e per adattarsi alle nuove tecnologie. La dotazione di capitale umano assume un valore cruciale che trascende chi ne usufruisce in prima istanza: essa promuove la generazione e la diffusione di nuove idee che danno impulso al progresso tecnico; migliora le prospettive di remunerazione e, chiudendo il circolo virtuoso, accresce l’incentivo all’ulteriore investimento in capitale umano.
In Italia questa spirale virtuosa si è bloccata, vuoi per il fatto che sono stati colpevolmente e insopportabilmente ridotti gli investimenti in capitale umano (scuola, università, ricerca, formazione professionale di elevato profilo), vuoi perché si sono scontati gli effetti negativi di quello che Zurru chiama giustamente un capitalismo fatto di “nani”, tali sia per le dimensioni delle imprese, sia per la loro scarsa propensione all’innovazione e alla ricerca, sia per l’intrinseca debolezza del meccanismo di trasmissione delle conoscenze e delle competenze da una generazione all’altra.
Zurru adombra questo fattore quando osserva che la “forza del territorio era fatta inizialmente di imprenditori ‘mediocri’, nel senso che le imprese sono nate spesso nel sottoscala, gestite da soggetti che fanno impresa unicamente sulla base di due risorse: le proprie competenze – quasi sempre acquisite un una precedente esperienza di lavoro dipendente – e la propria rete di relazioni familiari”.
Questo peculiare meccanismo di acquisizione delle competenze, basato sul “vissuto”, sull’esperienza pratica, sulla “conoscenza tacita”, per riprendere la fortunata espressione di Michael Polanyi, che per primo lo ha usato in questa accezione nel suo libro The Tacit Dimension, è difficile da trasformare in quel processo di continuità tra le diverse generazioni, in virtù del quale i contenuti archiviati nella mente di ciascun individuo – eventi, fatti, concetti, capacità – diventano, come scrive l’antropologo Pascal Boyer, “il punto cruciale della trasmissione della cultura”, in questo caso imprenditoriale. In questo caso nel passaggio da una generazione all’altra si è spesso riscontrata una caduta di livello di conoscenze e competenze che ha pesantemente segnato e compromesso il destino di molte azine famigliari.
Ciò che ne è scaturito è il decremento del “capitale sociale”, definito come l’insieme non solo delle istituzioni, ma in questo caso soprattutto delle norme sociali di fiducia e reciprocità nelle reti di relazioni formali e informali, che favoriscono l’azione collettiva e costituiscono una risorsa per la creazione di benessere.
A livello aggregato il capitale sociale, distinto dal capitale umano a cui pure è collegato, è un fattore di sviluppo umano, sociale, economico. Esso è il sistema di valori condiviso, che rappresenta un tratto dell’identità di un sistema paese, che si fissa nel lungo periodo, per via di consuetudini e principi che si tramandano di generazione in generazione. La debolezza di questo meccanismo di trasmissione ha reso difficile, in Italia, acquisire e arricchire questa eredità, accrescendone le opportunità.
Il capitale relazionale e sociale è l’espressione di una nuova forma di intelligenza, che è il frutto della capillarità e della ricchezza delle relazioni dei singoli agenti. Questa intelligenza è stata chiamata connettiva da Derrick De Kerckhove, allievo ed erede culturale di Marshall McLuhan proprio perché è il risultato di un sistema di nessi e di rapporti intersoggettivi: essa produce apprendimento e innovazione, migliorando le competenze e le prestazioni dei singoli e del sistema.
L’aspetto caratterizzante di questa modalità di pensiero, che la distingue dalle tipologie che rientrano all’interno di quella che può essere chiamata “intelligenza collettiva” è che, a differenza di quanto generalmente avviene in quest’ultima, all’interno dell’intelligenza connettiva ogni singolo individuo o gruppo mantiene la propria specifica identità pur nell’ambito di una struttura molto articolata ed estesa di connessioni. Siamo dunque di fronte a un processo di esteriorizzazione dell’intelligenza, che diventa un processo supportato e disvelato dalla rete.
Il riferimento a questo tipo di intelligenza evidenzia, in primo luogo, come cambia, anche in seguito all’irruzione del paradigma della “rete” e al suo crescente affermarsi, l’immagine non solo della conoscenza ma anche della produzione, che viene considerata sempre più come un fenomeno distribuito, che ingloba il suo ambiente, la sua cultura. Il senso di questo mutamento di prospettiva è ben colto ed espresso dal concetto di «mente estesa», che è il risultato dell’orientamento a pensare il mentale in termini di una disposizione solidaristica, relazionale e a paragonare la mente non tanto a un processo occulto che avviene dentro la scatola cranica di ciascuno, bensì a un’atmosfera che ci circonda, fatta di un contesto e di uno spazio che condividiamo.
In seguito a questi sviluppi il pensiero diventa sempre più una forma di connessione e collaborazione tra persone diverse, il risultato di una condivisione con la famiglia, con l’impresa, con gli amici ecc., cioè un fenomeno di gruppo.
La centralità del nesso tra innovazione, partecipazione, concertazione, formazione e sussidiarietà, che, come si è visto, caratterizza la società della conoscenza e l’ambiente innovativo, fa del sistema dell’istruzione e della formazione il luogo privilegiato da cui partono e verso il quale si concentrano le relazioni decisive ai fini dello sviluppo del sistema locale. Qui sta il fondamento dell’esigenza di riconoscere priorità ai processi dell’istruzione e della formazione globalmente considerati, riconoscimento che non è quindi una pura formula retorica, ma l’espressione di una necessità vitale e indifferibile.
L’aspetto interessante di questo tipo di approccio all’innovazione è che esso contempla aspetti che possono essere sintetizzate in due termini generali non certo usuali nel campo degli studi economici: l’incremento di intelligenza connettiva e la creazione di identità locale.
Il concetto di “intelligenza connettiva” fa, come si è evidenziato, riferimento a un’idea del linguaggio come scambio che presuppone la disponibilità di un contesto comune a chi parla e a che ascolta e si colloca su uno sfondo di assunzioni e di presupposizioni condiviso dai dialoganti, quale spazio di possibilità che consente l’ascolto di ciò che viene detto e la comprensione di ciò che viene taciuto. Da questo punto di vista la funzione primaria e costitutiva assegnata allo scambio linguistico e al dialogo non è quella di trasmettere informazioni già predisposte e bell’e pronte, bensì quella di indurre una comprensione o “ascolto” tra persone che condividono un background di conoscenze, interessi e abitudini, generato dalla tradizione a cui appartengono e dal contesto in cui sono inseriti e di cui fanno parte.
Da questo punto di vista, e proprio per le caratteristiche e le funzioni fondamentali, di carattere eminentemente sociale, che vengono attribuite al linguaggio, la situazione problematica ideale dalla quale partire per specificarne la natura non è quella della “presa di decisioni” in cui è impegnata una mente riflessiva solitaria, cosciente e razionale, che studia complesse alternative e si vale di tecniche sistematiche di valutazione considerate astrattamente. Occorre invece prendere le mosse dai soggetti collettivi, vale a dire dalle comunità, organizzazioni, associazioni e via elencando ed esemplificando, considerate come reti di scambi interattivi e di impegni reciproci, fatte principalmente di promesse e richieste che si sviluppano tra i membri che le compongono.
All’interno di questa situazione la condizione chiave è quella della risoluzione che, a differenza della presa di decisioni cosciente e razionale, è già sempre orientata verso una certa direzione di possibilità: il pre-orientamento di possibilità, che scopre uno spazio di azioni possibili nascondendone altre (ibidem, pag. 180) e che consente a chi si trova in una situazione di irresolutezza, cioè in una situazione nella quale ci si chiede: “che cosa bisogna fare?”, di risolvere una situazione problematica.
Il crescente interesse nei confronti di questi scambi dialogici ha stimolato più ambiti (filosofia della conoscenza e dell’azione, logica, informatica, economia) a studiare, a partire dagli anni ‘80, modelli atti a rappresentare l’interazione di più agenti, capaci sia di conoscere, sia di agire. In tali contesti risulta essenziale sviluppare un’articolata strumentazione razionale, che permetta a questi agenti di rappresentare conoscenze, di eseguire inferenze, di applicare diverse modalità comunicative e, infine, di pianificare azioni, in quanto singoli, ma anche in quanto gruppo, con i connessi problemi di coordinazione.
Quanto all’identità, essa rappresenta un elemento la cui creazione e il cui consolidamento scaturiscono da tutte le funzioni, gli aspetti e i processi che costituiscono un importante fattore di coesione e di stabilità di un territorio e di un contesto sociale in un contesto dinamico. Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergetiche, sia sviluppando “reti di protezione” alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale.
Il concetto di identità, in questo quadro generale, è dunque espressione diretta della struttura sociale e delle relazioni fra i soggetti che la compongono. A caratterizzarlo è l’intreccio di fattori fisici, culturali, relazionali ed economici che determinano la forma e la qualità dei singoli insediamenti e condizionano la formazione della base economica e produttiva di ogni specifica comunità.
L’aspetto importante del riferimento a questi concetti è che da essi scaturisce una chiara indicazione dell’impossibilità di prescindere, nella formulazione delle politiche di crescita e di sviluppo territoriale, dalle comunità locali e dalla partecipazione e dal coinvolgimento dei soggetti che le compongono. Questo è il senso della sfida posta oggi alla classe politica e ai responsabili del governo dei sistemi sociali dall’esigenza, sempre più sentita, di fare della partecipazione ai processi decisionali e della condivisione degli obiettivi di gestione del territorio, innovazione e di crescita la base di una nuova cultura diffusa, di un nuovo “senso comune” e di un nuovo modello organizzativo, più efficaci e rispondenti alle esigenze ormai indifferibili alle quali occorre far fronte se si vuole evitare di cadere in un declino che si profila sempre più incombente e minaccioso.
Ciò che sta avvenendo in Sardegna oggi nel campo delle politiche ambientali rende sempre più evidente e irreversibile la crisi del modello che Dahrendorf ha a suo tempo indicato con l’espressione “illuminismo applicato”. Si tratta di una concezione ingegneristica delle scienze sociali, basata sul presupposto della disponibilità di una base conoscitiva adeguata (teoricamente fondata) tale da consentire all’ingegnere sociale, posto di fronte a un problema concreto, di individuare le soluzioni più vantaggiose e di prospettarle a un’autorità pubblica, alla quale viene riconosciuta l’inclinazione a far uso di tali prescrizioni nei processi decisionali.
Da questa matrice è scaturita una concezione della natura dei rapporti tra conoscenza e azione fondata sull’idea di una radicale separazione di campo tra “esperto”, e autorità pubblica. Il primo procede sulla base delle usuali tecniche di calcolo su rappresentazioni simboliche e di indagini a fini di giudizio ed esprime il livello più alto di comprensione analitica della struttura delle questioni da risolvere. La seconda funge invece da committenza di queste indagini e da utente dei loro risultati e viene vista come la sede nella quale questi ultimi acquisiscono una traduzione operativa in processi decisionali.
Le popolazioni e le comunità locali, escluse a priori da questo meccanismo decisionale, oggi, giustamente, si ribellano ed esigono di far sentire e di far pesare la loro voce in scelte dalle quali dipende il presente e il futuro di tutti.
Silvano Tagliagambe
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Affascinante sentirvi parlare di “capitale sociale”. Ma sarebbe corretto approfondire tutto quello che ruota intorno al concetto stesso di Capitale.
Quel Capitale Sociale di cui parlate penso non scaturisca da meccaniche molto differenti da quello economico. Perlomeno all’interno della società occidentale in cui viviamo.
Ed entrambi i Capitali innescano meccaniche di scambi entropici quando innescano “cicli” reali di corretta individuazione, sviluppo compatibile e sfruttamento oculato delle proprie risorse (umane e materiali). Solo questi cicli reali permettono quella produzione, distribuzione, condivisione e consumo dei beni materiali e immateriali che sono gli elementi virtuosi e mai meramente virtuali, che contribuiscono al miglioramento del benessere collettivo e alla crescita felice delle società.
Detto questo pero’ mi chiedo e vi chiedo:
se esiste la giusta necessita’ di riconoscere l’importanza del Capitale sociale,quale elemento da sviluppare e tutelare, oggi ancora di piu’ in Sardegna e per la Sardegna, allora credo si debbano individuare alcuni elementi fondamentali che nessuno ancora mi ha spiegato dove siano. Ovvero ogni capitale per crescere ha bisogno di:
– Importanti capitali economici e importanti figure di Capitalisti illuminati.
– Ha bisogno, insieme a questi, di visioni strategiche per il futuro. E non di pure utopie.
– Ha bisogno di conoscenza del mercato e dei meccanismi che regolano domanda e offerta.
– Ha bisogno di infrastrutture materiali e di risorse reali.
– Ha bisogno di basi sempre crescenti di conoscenza e intelligenza.
– Ha bisogno di condivisione dei bisogni e delle offerte.
– Ha bisogno di forza lavoro che sappia interpretare e accrescere il proprio ruolo sociale
– Ha bisogno di innovazione di pensiero e azione.
– Ha bisogno di coraggio, nel comprendere anche la rivoluzione intesa come ciclo di capovolgimenti di fronte e di rispettivi ruoli.
Ora, se condividete con me questa lista della spesa, vi chiederei di osservare la ns. realtà sociale sarda e individuare chi o che cosa possa realmente costituire, oggi in Sardegna,
ognuna di queste voci. Perché io non ne vedo quasi nessuna all’orizzonte.
Vedo invece abbondare l’unica cosa che da sempre e’ in grado di affossare e distruggere qualsiasi capitale, sia esso economico, umano o sociale.
I discorsi di decine e decine di “economisti” inutili e lontani da qualsiasi realta’ che non sia quella della propria piccola parte di potere o finanza. Non parlo certo di tutti i presenti in questi post, forse solo di alcuni di loro. Ma parlo sicuramente di tutti quelli che sbraitano e parlano a decine fuori da questo spazio. Economisti fasulli o falsi. Che non fanno nessuna “economia reale” e usano vocaboli identici e vuoti, incomprensibili ai piu’ perche’ non devono essere compresi. In quanto comprendono il nulla.
In Sardegna, come in molti lidi della nostra decadente societa’ sono rimasti solo loro a parlare non essendo mai stati ingrado di agire. E, almeno per me non meritano nessuna attenzione.
Con tutti i miei rispetti.
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Caro Silvano,
come sempre leggerti – come ascoltarti – è un piacere.
Da parte mia è un piacere che dura da circa quarant’anni, nel corso dei quali, per fortuna, abbiamo non di rado potuto convenire su molte identiche vedute epistemologiche ma, purtroppo, su almeno altrettante inquietudini circa la possibile emancipazione di questa terra. Una terra da te molti anni or sono “sposata” (e non era facilissimo) nel nome della Filosofia della scienza, quando a Cagliari di Filosofia si poteva parlare con speranza, nella giusta convinzione di una possibile appartenenza orgogliosamente locale a un disegno e una prospettiva generali.
Da allora a oggi si è consumata – almeno per me – un’esistenza accademica e professionale, con l’ago della speranza che si alzava (ma poi si sarebbe abbassato) ogni volta che la Sardegna sembrava proporsi per qualche ragione d’eccellenza, o che personalmente entravo in contatto con qualche eccellenza in grado di farmi credere alle possibilità dell’Isola.
Tu sei una di quelle persone che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente e che mi hanno sostenuto in questa speranza, come Dorfles, De Kerckhove, Grauso o Soru (ma aggiungerei anche – con ammirazione – Pinuccio Sciola, Antonio Marras e Cristiana Collu) inducendomi a credere che si potesse essere anche qui parte di una cultura meno locale, e addolcendo il rimpianto degli anni in cui studiavo a Firenze.
Caro Silvano, dopo tanti anni, mi compiaccio di vederti ancora croccante e spumeggiante; ma abbiamo vissuto insieme alcuni episodi, come Krene e il progetto Marte (M@rte), facendo cose diverse per ruolo e preparazione nel nome di quella speranziella di cui parlavo prima, e non mi sembra che ci siano ragioni di compiacimento: le teste c’erano, forse anche le idee, ma…
Saluti affettuosi
Carissimi Silvano e Gianni,
forse é il momento di riprendere una riflessione collettiva in forme più profonde, magari meno pubbliche e unilaterali di quelle consentite dai siparietti stanchi dei convegni e anche dei già rapidamente avvizziti e banali social network. Una riflessione fatta di dialogo articolato, di interazione e ripensamenti che porti alla formazione di una classe dirigente, della quale, piaccia o non piaccia, nessuna società evoluta può fare a meno. Ovviamente non penso a una classe dirigente circoscritta e rappresentata da mosche cocchiere che orienti e governi un popolo obbediente e a capo chino, ma un insieme diffuso di intelligenze e competenze di cui sia difficile distinguere il confine tra se e il resto della società, una innervazione che sappia ricevere informazione e restituirla operativamente, che sappia trasformare gli stimoli, le aspirazioni e anche i malumori in visioni, orientamenti e decisioni. Che sappia, come tu, Silvano, ripeti da tempo citando Clément, far ‘cambiare leggenda’ a una società che risponde al disorientamento e alla complessità arroccandosi nel semplicismo, nello scetticismo e al si salvi chi può.
E’ vero che l’illuminismo applicato ha perso ogni capacità di legittimarsi come classe dirigente. Un sistema nervoso centrale che ha tagliato con arrogante sufficienza i canali di comunicazione e di comprensione di quanto accade al di fuori delle proprie ristrettissime cerchie. E’ altrettanto vero, però, che sarebbe un rischio gravissimo illudersi che la sola partecipazione, l’opportunistico assecondare ogni mal di pancia che esplode in questi anni difficili, non possa essere la soluzione ai problemi.
Di fronte alla crescita esponenziale, forse in parte artificiale, della complessità dei problemi, la risposta cinica e astuta di quella che potenzialmente sarebbe dovuta essere la classe dirigente é stata, da una parte, l’isolamento sdegnoso, dall’altra, lo scarico di responsabilità attraverso una delega populistica che abbandona a se stessa la parte più ampia della società, assecondandone le ‘leggende’ anche quando siano in palese contraddizione con le competenze.
Quello che vedo mancare, ormai, intorno a me, é l’intelligenza e la competenza diffusa e applicata. La classe dirigente – perdonatemi questo termine che può apparire obsoleto e presuntuoso, ma a cui attribuisco un significato dinamico e non settario – é stata sostituita da un ceto politico sempre più privo di competenze individuali e collettive in balia di una burocrazia bizantina che nuota in un mare di norme prive di ratio e di obiettivi condivisi e che, di fatto. é il vero dominus di una situazione in caduta libera. Quel mondo di insegnanti, professionisti, imprenditori, artisti che costituisce il lievito di una società in evoluzione é distolto quotidianamente dal proprio ruolo e dalla propria presenza nei luoghi dove la società deve crescere e impastoiato a risolvere problemi inesistenti, a combattere contro alberi decisionali fatti di articoli, commi e combinati disposti, piuttosto che a lavorare per nuovi scenari e nuove opportunità, per diffondere conoscenze e competenze.
Se esiste una possibilità di ricreare una legittimazione di una classe dirigente, di cui solo gli ingenui o i demagoghi possono pensare di fare a meno, questo passa attraverso un fronte comune di quanti rifiutino il ruolo di mosche cocchiere, sia nella forma ormai ridicola di gruppetti di intellettuali isolati, sia di agitatori compiacenti e opportunisti, sia i mediocri sacerdoti di un potere burocratico autoreferenziale.
La soluzione, difficile e complessa, é quella indicata da Silvano Tagliagambe. Difficile e complessa, perché é troppo facile la tentazione di interpretare la partecipazione, il coinvolgimento delle comunità, come compiacenza nei confronti di qualunque ‘leggenda’. Se l’illuminismo applicato é ormai un modello delegittimato, é il momento di sostituirlo con un illuminismo diffuso e condiviso, non certo con la rinuncia a una interpretazione illuministica della realtà. Come insegna John Rawls, la costruzione del bene comune passa attraverso la rinuncia alle dottrine onnicomprensive, attraverso una intersezione di opinioni condivisibili, senza pregiudizi e senza steccati. Chiunque abbia una pur piccola competenza, la metta e si metta a disposizione, rinunciando a compiacere l’opinione diffusa, facendo – mi si perdoni l’espressione purtroppo ormai abusata e liturgica – rete con tutti gli altri portatori di competenze, legittimandosi reciprocamente, piuttosto che cercare una effimera legittimità individuale conquistata a danno della ragione.
Scusi, Vanini, cerco di capire. Cosa è quello che lei chiama “albero decisionale” e chi sono i saggi, capaci, razionali e sapienti?
L’albero decisionale é la serie di proposte e di scelte che ogni giorno dovrebbero mettere a frutto nel modo più rapido e facilitato le risorse di cui disponiamo, finalizzate a obiettivi positivi e che invece oggi é sostituito da un labirinto di cavilli autoreferenziali di cui non si vede la relazione con obiettivi positivi.Di “saggi, capaci, razionali e sapienti”, è lei a parlare e quindi non so dirle a chi si riferisce. Io mi riferisco a insegnanti, professionisti, imprenditori, artisti e di tutta la grande quantità di individui diffusi nella società e che sono portatori di conoscenze e competenze maturate quotidianamente tra lo studio, il contatto reale con le cose e con la gente, e con l’applicazione pratica. Individui che, come dicevo, sono costretti, ormai, a consumare il proprio tempo a sbrigare incombenze burocratiche, piuttosto che a insegnare, progettare, investire o creare. Niente grandi saggi o profeti. Da quello che riscontro parlando ogni giorno sull’autobus come nei luoghi del lavoro c’é molta più razionalità e sapienza in giro di quanto i risultati dell’attuale ‘albero decisionale’ facciano ritenere. Si tratterebbe di ascoltare un po’ di più, probabilmente…
Segnalo un convegno che iRS ha organizzato la settimana scorsa a Ozieri e che in buona parte riprende alcune delle riflessioni trattate qui
http://www.irsonline.net/2013/06/costruire-coscienza-con-la-partecipazione-a-ozieri-con-irs-si-comincia-un-nuovo-percorso/#more-12219
una assemblea molto bella , ho partecipato molto volentieri. IRS ha trovato un bel modo di colloquiare e costruire spero continui su questa strada.
Tèniri arrexoni “robertobolognesi”: “Ci vuole tempo per digerire questo corposo intervento di Tagliagambe”. Ma si pori cumprendi subitu subitu si bandais a si ligi unu articulu de “La Stampa” de unas cantu diis fairi, scrittu de Peppe Servegnini. Chistionara de unu chi si nd’ est dèpiu andai foras de Italia a circai traballu puita, e “dagli oggi e dagli domani”, tutus is aziendas aundi traballara, o serranta o “delocalizzanta”.
Aundi nci dd’ ari acabbara? A Singapore. E ita fairi? “Si occupa di internalizzazione di un prodotto italiano, ma non italiano (ita si potzu nai? pecorino sardo o grana padano, fatu in Bangladesch?), per i mercati emergenti” Traballu beni pagau, de grandu specializazioni e beni cunsiderau. Pagu mali, fortunau puru: sentza de s’internalizazioni e “i mercati emergenti, furi aturau in domu a si contai su priogu.
M’ aturat una duda: sa lingua imperada in Singapore ita est su “mandarinu” o s’ inglesu (domanda retorica)? Comenti si fàiri a sartiai custu passàgiu de importantzia manna (segundu Bolognesi) in su “circuitu virtuosu” bogau a pillu de Tagliagambe: “innovazione-partecipazione-concertazione-sussidiarietà-istruzione/formazione”? Si ddu nau deu: cun sa mazina de nci ponni is tassas, po is socieraris, a su prus, a su 17%, cun esenzioni de totu fintzas a 100.000 dollarus; po “is personas fisicas, su 15% po is “non residenti”, po is residentis una media de su 11,5% e unu massimu de su 20% po chini ci bèssiri apitzus de 320.000 dollarus.
Eh, ingunis trucant is cartas. Comenti faeus nosus chi arribbaus a pagai prus de su 50%? Non benir’ a beni. Fùrria fùrria, su giru virtuosu de Tagliagambe, nci dd’ acabbara po si segai is cambas, e po si fai girai is patatas.
Pingback: Tagliagambe: “L’identità produce ricchezza” | Bolognesu: in sardu
Un ringraziamento a tutti coloro che hanno letto e voluto commentare questo mio intervento che, ovviamente, non voleva (e non poteva) essere esaustivo e affrontare tutti i problemi di fronte ai quali ci troviamo. Segnalo solo due cose: sulla lingua come mezzo principale di espressione dell’identità ho fatto un’apposita TED Conference che è stata messa in rete qualche giorno fa (ecco il link: http://www.youtube.com/watch?v=U4vkWAeYjIM9) per cui non mi sembrava il caso di ripetere anche qui lo stesso ragionamento. Quanto alla dispersione scolastica lo considero un problema talmente grave da aver esplicitamente denunciato il fatto il fatto che “sono stati colpevolmente e insopportabilmente ridotti gli investimenti in capitale umano (scuola, università, ricerca, formazione professionale di elevato profilo)”. E questa è una delle cause (anche se non la sola, ovviamente) all’origine di questa dispersione.
Grazie a lei e una risposta più articolata: http://bolognesu.wordpress.com/2013/06/09/tagliagambe-lidentita-produce-ricchezza/
Grazie al prof. Tagliagambe e a Vito, in termini elaborati e anche complessi, ma molto chiari, il dibattito si sposta dal fatto specifico al metodo. Per me si é trattato di una lettura estremamente interessante, per certi aspetti illuminante.
Infatti quì servirebbe una replica vera e propria, dal tema del capitale sociale non possiamo omettere il tema linguistico. Già Pigliaru lo ignorò nel suo studio sulla mancata convergenza economica fra le Regioni: http://www.sanatzione.eu/2012/11/dallo-studio-delleconomista-pigliaru-allindipendentismo-il-decentramento-paga/
Pare quasi tabù inoltrarsi in certi temi.
Ci vuole tempo per digerire questo corposo intervento di Tagliagambe. Ma qualcosa si pù dire già adesso su: “Il concetto di identità, in questo quadro generale, è dunque espressione diretta della struttura sociale e delle relazioni fra i soggetti che la compongono. A caratterizzarlo è l’intreccio di fattori fisici, culturali, relazionali ed economici che determinano la forma e la qualità dei singoli insediamenti e condizionano la formazione della base economica e produttiva di ogni specifica comunità.
L’aspetto importante del riferimento a questi concetti è che da essi scaturisce una chiara indicazione dell’impossibilità di prescindere, nella formulazione delle politiche di crescita e di sviluppo territoriale, dalle comunità locali e dalla partecipazione e dal coinvolgimento dei soggetti che le compongono.”
La cosa che mi sorprende di più è la mancanza di qualsiasi riferimento alla lingua come mezzo principe di espressione dell’identità. E la mancanza di qualsiasi analisi del rapporto tra tracollo linguistico–con la cessata trasmissione generazionale del sardo, negli anni ’70–e tracollo dello spirito comunitario in Sardegna, con tutte le degenerazioni anche economiche che ne sono conseguite. Eppure, è lo stesso Tagliagambe che dice: “Quanto all’identità, essa rappresenta un elemento la cui creazione e il cui consolidamento scaturiscono da tutte le funzioni, gli aspetti e i processi che costituiscono un importante fattore di coesione e di stabilità di un territorio e di un contesto sociale in un contesto dinamico. Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergetiche, sia sviluppando “reti di protezione” alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale.”
E mi manca anche qualsiasi riferimento alla gravissima dispersione scolastica in Sardegna: problema in cui si incrociano e si annodano i punti indicati da Tagliagambe:
innovazione;
partecipazione;
concertazione;
sussidiarietà;
istruzione/formazione
Ma vedrò di articolare il mio discorso sul mio blog.
E’ vero, manca (penso per brevità) un discorso sulla dispersione scolastica, così come sulla questione della lingua. Ma ciò che è più importante è che il ragionamento di Tagliagambe secondo me porta dritto dritto lì, e questo non va sottovalutato. Non c’è una chiusura aprioristica sui temi dell’identità e della lingua, anzi un ragionamento del genere non solo non rappresenta una chiusura ma anzi costituisce una solidissima base scientifica. Bisogna proseguire il ragionamento, sono d’accordo.
Concordo con Tagliagambe che ha ben esplicato la natura del capitale sociale, di cui ho fatto menzione nell’intervento sull’articolo di Zurru. E si inizia a cogliere finalmente il nesso fra una pretesa “ingegneria sociale” calata dall’alto rispetto alle esigenze che invece manifestano le reali caratteristiche delle popolazioni locali (proprio Ralf Dahrendorf tuttavia, seppur liberale, commentando queste ultime in rapporto all’Europa contemporanea, le relegava ad un una mera espressione romantica).
Ciò che dobbiamo approfondire oggi è il livello e la tipologia dell’istruzione che accompagna questo territorio: è calibrata sulla base di queste esigenze territoriali? L’identità è parte integrante di questi processi? Domande retoriche.